Intervista al professore di Storia delle relazioni internazionali alla Sapienza di Roma: “L’Italia porterà allo stesso tavolo gli attori locali e internazionali per garantire uno sviluppo integrato di tutta la regione. Può intervenire come player perché è un facilitatore, sia per lo sviluppo dei programmi europei e internazionali di sviluppo economico e di stabilizzazione, sia per il proprio status di attore storico dell’area”
“L’Italia può intervenire come player nei Balcani perché è un facilitatore, sia per lo sviluppo dei programmi europei e internazionali di sviluppo economico e di stabilizzazione, sia per il proprio status di attore storico dell’area”. Lo dice a Formiche.net Andrea Carteny, docente di Storia delle relazioni internazionali alla Sapienza di Roma, che analizza non solo le contingenze legate alle tensioni tra Serbia e Kosovo, ma più in generale le aspettative e le strategie eurobalcaniche.
Da tempo il ministro degli Esteri Antonio Tajani invita a lavorare per una normalizzazione del fronte tra Serbia e Kosovo: quali sono le politiche da attuare visto che fino ad oggi i richiami sia americani che europei non hanno purtroppo sortito gli effetti desiderati?
Per la stabilità e la sicurezza delle istituzioni euro atlantiche è fondamentale mantenere stabili e sicuri anche i confini tra i Paesi del sud-est europeo, all’interno di un quadro di progressiva integrazione capace di garantire sicurezza e protezione anche delle minoranze nazionali. Si tratta del riconoscimento dell’identità di tutte le comunità etniche e religiose, fondamentale in questo contesto: pensiamo alla comunità serba del nord del Kosovo, come anche di quella albanese in Serbia, spesso oggetto di speculazioni geopolitiche su eventuali progetti di scambio di territori. È chiaro che la stabilizzazione che avviene oggi all’interno di un quadro interstatuale non lascia spazio a complessità di negoziato di questo genere ma si muove nella prospettiva di uno sviluppo regionale di tutti gli attori in campo, capace di depotenziare le tensioni e proporre obiettivi comuni di integrazione economica e infrastrutturale.
Ovvero?
La questione fondamentale è mantenere sicure le frontiere, ma anche permeabili in funzione di progetti di cooperazione che si stanno sviluppando e che sono decisivi per la prosperità della regione. L’Italia, insieme a Bruxelles e a Washington, intende mantenere questa come priorità, avendo tra l’altro sul campo un impegno importante all’interno delle missioni internazionali, in primis con la KFOR, che garantiscono una reale effettiva sicurezza per la vita quotidiana di tutti i cittadini kosovari di qualunque etnia. Questo è un po’ anche il principio per il quale anche il governo Meloni è particolarmente impegnato nel proporre un momento di incontro e di negoziato, anche diretto, come la conferenza di gennaio sui Balcani lanciata dal ministro degli Esteri Antonio Tajani. Durante le prossime settimane l’Italia intende infatti portare allo stesso tavolo gli attori locali e internazionali per garantire uno sviluppo integrato di tutta la regione e avere un ruolo primario in questo processo.
L’Italia dispone di una facilità di dialogo con tutte le componenti, perché non ha controindicazioni di carattere religioso, sociale e politico con le singole parti: questa capacità di essere pivot come si potrà tradurre realmente in politiche attive?
L’Italia può intervenire come player a livello bilaterale e regionale in quanto svolge un ruolo tradizionale di mediatore e “facilitatore” ormai da anni, sia per lo sviluppo dei programmi europei e internazionali di integrazione economica e di stabilizzazione, sia per il proprio status di attore storico nell’area. Dopo la seconda guerra mondiale, e ancor di più dopo la fine della guerra fredda, il ruolo di Roma si è evoluto in una più moderna e pacifica prospettiva di cooperazione economica. In questo senso gli attori istituzionali e gli imprenditori italiani sul campo, sia militari di peace keeping e sia civili ed economici, sono naturalmente degli “ambasciatori” di sviluppo e di stabilità (pensiamo anche alla Macedonia, al Montenegro, all’Albania, dove l’azione dell’Italia continua ad svolgere un’attività molto dinamica ma sempre attenta alle sensibilità locali). In questa realtà l’Italia è così in qualche modo ben percepita da parte delle popolazioni locali che vedono nell’Italia, più che più che un Paese di dominio, un Paese promotore e sostenitore di sviluppo. Da parte italiana, inoltre, sarà importante concretizzare questo tipo di azioni per cercare di implementare lo sviluppo regionale e nello stesso tempo rafforzare il “sistema Paese” anche a livello economico e infrastrutturale.
In che termini?
Si tratta di prospettive strategiche molto importanti, come ad esempio nell’ambito dell’interconnessione energetica con i Balcani, che ha visto l’Italia svolgere un ruolo da protagonista per l’integrazione delle reti e quindi per più alti livelli di sicurezza energetica.
L’ingresso della Croazia nell’area Euro e nell’area Schengen può favorire questi processi e, di contro, il fatto che altre realtà come Bulgaria e Romania siano in lista d’attesa, come impatta sul ragionamento generale?
L’integrazione nell’area euro della Croazia è un risultato tangibile nel processo di integrazione economica dell’area ex jugoslava, mentre la questione dell’inclusione nell’area Schengen è particolarmente delicata perché va a impattare in maniera particolare con la questione migratoria, uno dei nodi irrisolti sul tavolo dell’Unione europea. In questo senso la Croazia, diventando custode della frontiera esterna, viene in qualche modo responsabilizzata per questo suo ruolo, ma attenzione al rischio di una maggiore marginalizzazione della Bosnia Erzegovina.
Come impedire future frizioni?
È importante che le politiche sul campo da parte degli attori comunitari siano in grado di interfacciarsi con le istituzioni della Bosnia Erzegovina, Paese esterno all’Unione europea e al di fuori di Schengen, hub di flussi migratori da est, che in questo momento si trova ad affrontare un duplice problema, sia relativo alla sicurezza interna da un lato e sia per la marginalizzazione esterna di Schengen dall’altro (mi riferisco alla frustrazione di chi rimane fuori Schengen, come per esempio la Romania). Ricordiamoci che fino allo scorso anno la polizia croata è stata messa sotto l’occhio critico degli osservatori per essersi resa protagonista di pratiche di respingimento particolarmente dure. L’auspicio è che ora, con Zagabria dentro Schengen, si proceda per estendere le migliori pratiche di controllo dei confini in prospettiva a tutti i Balcani occidentali.
Il ruolo dei player esterni soprattutto sul costone balcanico è presente da anni, prima con la Via della Seta cinese poi con la vax diplomacy e infine con le pressioni russe su alcuni Paesi. Il discorso legato alle infrastrutture come può essere declinato in chiave moderna? Sarebbe utile una interconnessione di porti tra le due sponde adriatiche?
Credo che l’interconnessione e lo sviluppo economico dei Balcani con l’Occidente sia decisamente auspicabile, rispondente alle analisi strategiche che considerano questa regione al centro degli interessi dei competitor russo e cinese. In questo senso Washington e l’amministrazione Biden hanno rilanciato questa sfida a livello globale nei confronti del competitor cinese. L’Unione europea è stata tradizionalmente uno dei promotori principali di sviluppo infrastrutturale nei Balcani, dove questa azione sul campo va a impattare con una complessità etno-nazionale e religiosa particolarmente delicata. Un fruttuoso sviluppo infrastrutturale è stato da tempo auspicato e si ritrova all’interno di vari programmi di sviluppo in cui l’Italia ha un interesse particolarmente importante, che condivide con altri player locali (come l’Austria e l’Ungheria), con l’obiettivo di mantenere una strategia comune di progressiva integrazione comunitaria.
@FDepalo