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La mafia secondo Cossiga. Il ricordo di Cangini

“Dobbiamo rassegnarci a convivere con il potere mafioso, con quello ‘ndranghetista e con quello camorrista perché non ci sono estranei: sono espressione del carattere della gente cui si rivolgono e corrispondono a un sentimento radicato in alcuni popoli italiani”. Andrea Cangini ricorda le riflessioni dell’ex Presidente della Repubblica immortalate nel saggio “Fotti il potere, gli arcana della politica e dell’umana natura”

A ventiquattr’ore dall’arresto del boss Matteo Messina Denaro, giova ricordare le parole di Francesco Cossiga sul fenomeno mafioso. Ma anche su quelli ‘ndranghetista e camorrista. Parole a dir poco urticanti, ma degne di nota.

Parlavamo, col presidente emerito della Repubblica, di quello che Leonardo Sciascia chiamava “il contesto”. Ovvero del perché la mafia poté metter radici in Sicilia. Il capo brigatista Mario Moretti spiegò che la forza delle Br stava non tanto nella loro capacità di fuoco, quanto nella loro capacità di “influenza”. In quello che fu definitivo “brodo di coltura”: negli oltre 600mila italiani che, secondo l’intelligence americana, fiancheggiavano concretamente le Brigate rosse e nei tanti, tantissimi di più che ne condividevano le motivazioni per così dire politiche. Secondo Cossiga, per ragioni analoghe le mafie hanno prosperato, ma, a differenza delle Brigate Rosse, sconfiggerle non sarebbe stato così facile.

Nel salotto del suo appartamento romano di via Ennio Quirino Visconti, dove lavoravamo al libro-intervista “Fotti il potere, gli arcana della politica e dell’umana natura”, Francesco Cossiga la mise così: “Dobbiamo rassegnarci a convivere con il potere mafioso, con quello ‘ndranghetista e con quello camorrista perché non ci sono estranei: sono espressione del carattere della gente cui si rivolgono e corrispondono a un sentimento radicato in alcuni popoli italiani”. Parlava di “popoli”, Cossiga, perché era convinto che l’identità nazionale italiana altro non fosse che un patchwork di identità locali. E con altrettanta pervicacia era convinto che le dominazioni straniere subite nei secoli avessero radicato negli italiani in generale e nei “popoli” siciliano, calabrese e campano in particolare non solo un’istintiva resistenza al potere legale dello Stato, ma anche una naturale tendenza a dotarsi di un contropotere ovviamente illegale. Contropotere di cui la politica, anche quando non è oggettivamente “mafiosa”, finisce spesso per tenere conto.

La conclusione fu tanto amara, quanto, nello stile del presidente emerito, paradossale: “Ci sarebbe solo un modo per estirpare la malapianta della criminalità organizzata: il terrorismo di Stato. Farli fuori tutti, naturalmente in silenzio. Ma è un programma troppo vasto per un piccolo Paese come il nostro”.


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