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La destra e le nomine. Il governo Meloni a un bivio storico

Il corsivo di Arditti sullo spoils system e i casi Ruffini, Dal Verme e Minenna. La destra italiana ha il diritto/dovere di fare le nomine che crede, e ha tutto quello che serve per scegliersi dirigenti adeguati alle sfide. Non c’è tempo da perdere in polemiche sterili: nei ministeri dispone di gabinetti costruiti ex novo e sono strumenti potenti per controllare le attività strategiche ma anche quelle ordinarie

A volerla dire malamente, si potrebbe sostenere che confermando Ruffini e Dal Verme ma sostituendo Minenna il governo ha tenuto i direttori di sinistra e cambiato quello di destra. E già questo farebbe piazza pulita di molte delle chiacchiere a vanvera spese negli ultimi giorni sul tema dello Spoils System.

In realtà però l’argomento è più complesso (ma non per questo meno importante) ed attiene all’essenza vera e ultima del governo Meloni. Vediamo di spiegarci allora, perché in questa storia molti si pronunciano in malafede o per interesse personale, cui si aggiungono altri che parlano senza sapere.

Punto primo: il governo ha il pieno diritto di fare tutte le nomine che la legge gli assegna. Anzi: ha il dovere di farle, perché tra le funzioni che un esecutivo deve esercitare c’è anche quella di fare in modo che le strutture di alta amministrazione seguano gli indirizzi politici ricevuti. Quindi non c’è nessuna stranezza in questo e sono pure oscenità istituzionali quelle di chi grida all’occupazione impropria di poltrone o altre ridicole amenità di questo tipo. Già abbiamo dato in passato con effetti non degni di nota (ci pensi Giuseppe Conte, la fase due del movimento non deve ripetere gli errori di allora).

Punto secondo: chi da sinistra si agita perché il governo fa le sue nomine dovrebbe contare fino a 16.000 prima di parlare, banalmente alla luce del fatto che proprio la sinistra ha governato una decina d’anni (con nomine annesse) senza peraltro aver mai vinto chiaramente le elezioni.

Punto terzo chi da destra agita il machete o strilla nella difesa delle prerogative del governo dovrebbe semplicemente fare due cose, peraltro strettamente correlate: compulsare curricula al fine di individuare personalità con competenze adeguate ai posti disponibili ed applicare la legge, senza cadere in vittimismi o sacri furori che sono del tutto fuori luogo ed anche sommamente ineleganti.

Torniamo un momento a Ruffini, Dal Verme e Minenna. Il governo decide con saggezza di confermare i primi due perché sono bravi e perché sanno cosa fare dal posto in cui si trovano. Ora, per essere chiari, è ovvio che uno che da anni fa un mestiere (tipo il direttore dell’Agenzia delle Entrate) è capace di farlo, quindi sostituirlo è sempre (almeno un po’) un problema. D’altra parte è vero però che mai si cambia mai si crea nuova professionalità.

Il mestiere del governo (quindi della politica) sta proprio qui: cambiare con saggezza, valorizzare le competenze, riconoscere le compatibilità (non tutti possono fare tutto con tutti gli esecutivi). Insomma Ruffini e Dal Verme vedono riconosciuta la loro bravura, mentre Minenna paga qualche frizione di troppo, forse anche con quel pezzo importante del sistema nazionale che è la Guardia di Finanza. Tutto normale in democrazia, gli equilibri di potere hanno nelle nomine un punto importantissimo e delicato.

Quel che conta però è l’atteggiamento complessivo del governo Meloni e del premier in prima persona. Qui bisogna essere molto chiari, ai limiti della carta vetrata. La destra italiana è di fronte ad una occasione storica, forte di consensi poderosi e dotata di una leader dinamica, competente ed appassionata. Ha netta maggioranza in Parlamento e governa gran parte delle regioni, dalla Lombardia alla Sicilia, dal Veneto alla Calabria. Insomma è al culmine della sua condizione di potere, perché le cose vanno anche chiamate con il loro nome.

Nei ministeri dispone di Gabinetti costruiti ex novo e sono strumenti potenti per controllare le attività strategiche ma anche quelle ordinarie. Per giunta la legge (decreto legislativo 150 del 2009, che va a potenziare la legge Bassanini, come ricordato in queste ore da Pier Luigi Petrillo) assegna ad ogni singolo ministro il potere di indirizzare l’attività di tutte le direzioni generali con atti formali, che debbono essere rispettati e che vengono controllati da strutture ministeriali dedicate. Si tratta dunque di esercitarlo questo potere e si tratta di farlo giorno per giorno, con costanza, perché il governo è una cosa seria e non tutto può andare in formato Instagram.

L’occasione per Giorgia Meloni è ghiotta, anche perché a sinistra la scena è malinconica. La condizione della premier è favorevole anche a livello internazionale, perché la tragedia ucraina voluta da Putin le regala uno spazio altrimenti difficile da costruire. Certo, resta una complessità di rapporto con l’Europa, ma è quella stessa Europa che poi mette in campo il Pnrr, quindi forse non c’è troppo di cui lamentarsi.

La destra italiana dunque, nella formazione Meloni-Salvini-Berlusconi, ha tutto quello che serve per governare e per scegliersi dirigenti adeguati alle sfide. Non c’è tempo da perdere in polemiche sterili, ma c’è invece da lavorare. Si tenga il governo quelli che ritiene meritevoli e cambi quelli da sostituire. Ma sappia però dare indirizzi solidi e si applichi nel giorno per giorno della vita amministrativa, che non va controllata nelle minuzie dal livello politico ma che non può nemmeno essere lasciata a se stessa.

Meloni ha il dovere di provare a passare alla storia, lo faccia senza indugio. “Non ci hanno lasciato governare” detto a qualche anno di distanza è consolazione miserrima.

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