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L’uomo di Stato e di finanza che amava Aristotele. Gotti Tedeschi ricorda Ratzinger

Il banchiere e saggista partecipò alla scrittura dell’enciclica Caritas in Veritate: “L’uomo – questa è l’essenza dell’enciclica – ha a disposizione tantissimi strumenti. Ma se perde i riferimenti in termini di valori, il rischio è che gli strumenti siano fini a se stessi. Di più, assumano autonomia morale”

Premette subito che lui “si limiterà a dare un ricordo” di papa Benedetto, tratteggiando quelli che sono “gli aspetti che ho conosciuto meglio”. Ettore Gotti Tedeschi, banchiere, saggista ed ex presidente dell’Istituto Opere Religiose, parla della vicinanza al defunto Ratzinger, come di “un grande privilegio”. Dunque, al netto del testamento spirituale e del suo ruolo nella guida della Chiesa, Gotti Tedeschi sottolinea due aspetti meno sondati ma molto significativi di Benedetto XVI. “Il grande statista” e un formidabile “risanatore” sotto il profilo economico.

Gotti Tedeschi, sono aspetti probabilmente meno evidenti del papa emerito, perché partire da qui per ricordarlo?

Proprio perché sono aspetti meno noti, ma fondamentali. Durante il suo papato volle, tra le prime cose, risanare le finanze dello Stato Città del Vaticano. Non solo, ma diede un forte imprimatur all’applicazione di tutte le leggi internazionali, specie legate all’antiriciclaggio, e si attenne rigidamente alla legislazione internazionale emersa anche a seguito dell’attacco alle Torri Gemelle. Insomma, Ratzinger voleva che la Santa Sede fosse presa da esempio e un modello di efficienza a livello internazionale. Alla base di questo, c’è una convinzione profonda.

E quale sarebbe?

Benedetto XVI era convinto, a ragione, che al netto di quelli diplomatici, i rapporti tra Paesi si consolidino sulla base dei fatti. L’applicazione delle leggi internazionali è un fatto rilevante. Così come lo è il risanamento delle casse statali vaticane.

Lei collaborò con Benedetto alla stesura dell’enciclica Caritas in Veritate. Che esperienza fu?

Straordinaria. Penso che quell’enciclica sia molto citata ma poco letta, ma contiene una visione sul mondo e sull’umanità incredibile. Il messaggio è di un’attualità disarmante. L’uomo – questa è l’essenza dell’enciclica – ha a disposizione tantissimi strumenti. Ma se perde i riferimenti in termini di valori, il rischio è che gli strumenti siano fini a se stessi. Di più, assumano autonomia morale. Un concetto straordinario, che trae origine e spunto da una precedente enciclica di papa Giovanni Paolo II.

Lei conobbe Ratzinger prima che diventasse papa?

Sì. Ricordo che passammo un intero pomeriggio – circa quattro ore – a parlare di globalizzazione. Erano gli anni della grande de-localizzazione produttiva delle imprese italiane verso la Cina. Lui si interrogava su questo fenomeno. Si pose, con grande lungimiranza, questa domanda: quando la Cina sarà così forte attorno al Mondo, esporterà la sua cultura in Occidente? Aveva in qualche modo previsto quello che sta accadendo ora.

In definitiva, come declinava la sua azione al soglio, Benedetto XVI?

Era un aristotelico. La sua logica era tomista. Questo fece di lui, oltre alla sua sconfinata preparazione teologica e filosofica, un grande uomo di Stato e di governo. Anche nel suo approccio all’economia, emerge il sillogismo aristotelico. L’economia in quanto tale è uno strumento per gestire risorse. Ma questo non basta all’uomo per soddisfare le sue dimensioni. L’uomo, specie per coltivare la componente spirituale, deve cercare la verità. Questa è stata, sempre, la volontà di Benedetto XVI.

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