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Cosa resta dell’Italia di Agnelli e della sua industria secondo Ezio Mauro

Conversazione con l’ex direttore e ora editorialista di Repubblica: “Esiste una classe dirigente che è una brutta copia di quella con cui aveva a che fare l’avvocato: oggi sono tutti personaggi minori. Lui si confrontava, nel nostro Paese e fuori, con figure che avevano uno spessore maggiore. Oggi la guerra radicalizza le posizioni e obbliga a dire chi sei e di conseguenza da che parte stai”

La “formula Agnelli”, racconta a Formiche.net l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro, aveva cinque elementi: la famiglia, la fabbrica, Torino, la Stampa (con dentro la Juve) e l’internazionalismo. Ovvero l’essere profondamente radicato in un’identità italiana, che poi declinava tramite una visione né angusta né limitata.

In questa ampia conversazione, Mauro traccia la cesura tra il mondo ai tempi dell’avvocato e quello attuale, utilizzando sfide complesse come la guerra in Ucraina, la mission dell’occidente e lo stato di salute della nostra democrazia, come cartina di tornasole per indicare indirizzi e future azioni.

Direttore, vent’anni senza Gianni Agnelli può essere un’occasione di riflessione sul ceto industriale italiano e sull’establishment? Ovvero, quale è stata la direzione imboccata dal Paese?

Intanto viene da pensare che l’avvocato sia stato un uomo del Novecento, non solo perché era tutto immerso in quel secolo, che ha attraversato con le sue esperienze più significative, ma anche perché il mondo è cambiato proprio nel passaggio tra il Novecento il secolo nuovo. Per cui tutti i punti di riferimento che lui aveva sono, in qualche misura, saltati.

Che cosa ha resistito?

L’Europa e il concetto di Occidente che però, vediamo, viene inteso in modo diverso oggi. Giorgia Meloni si dice occidentale, ma non basta far parte della Nato per essere occidentali perché l’Occidente non è una caserma e la Nato è un elemento costitutivo dell’Occidente, ma fortunatamente non assorbe l’intero concetto. Certo c’è un Occidente basato su un rapporto tra Europa e Stati Uniti come una comunità di destino che prende origine della sconfitta dei fascismi e del ripudio di sistemi dittatoriali. Inoltre, ha fatto fronte nei confronti dell’impero sovietico e si basa su dei valori di democrazia e di libertà: si basa sullo Stato di diritto. Ma Meloni ha difeso la posizione di Orban nella contestazione dello Stato di diritto in occasione del braccio di ferro con l’Unione europea. Quindi credo ci siano un po’ di nodi che che complicano l’eredità Agnelli. Dell’eredità materiale ne ha parlato John Elkann, spiegando per la prima volta quanto sia travagliato il conflitto con la madre.

Dal punto di vista del lascito che potremmo definire politico, nel senso ampio del termine, e morale che cosa possiamo dire?

Esiste una classe dirigente che sicuramente è una brutta copia della classe dirigente con cui aveva a che fare l’avvocato: oggi sono tutti personaggi minori. Lui si confrontava, nel nostro Paese e fuori, con figure che avevano uno spessore maggiore. Oggi la guerra radicalizza le posizioni e obbliga a dire chi sei e di conseguenza da che parte stai. E le risposte non sono tutte rassicuranti, perché dopo una prima fase in cui la condanna dell’invasione è stata evidente, e viene da aggiungere ci mancherebbe altro, c’è una fase in cui si tende a confondere la figura dell’aggressore e dell’aggredito.

In che misura?

Come se l’aggressione si limitasse al momento dell’invasione e non fosse invece un dato costitutivo di questa guerra che non si può ridurre soltanto alla fase iniziale. Bisogna capire che, anche se siamo la periferia della guerra, siamo comunque coinvolti dal fatto che sono in gioco i nostri valori, perché quando non si rispetta la sovranità di uno Stato, la libera determinazione di un popolo, il diritto internazionale, i principi della democrazia allora esiste il diritto di restituire la forza a quella democrazia. Ed è qui che entriamo in gioco anche noi. Si potrebbe dire, con una forzatura, che gli ucraini combattono questa battaglia anche per noi.

Guardando alla figura di Gianni Agnelli, quali i modi per il sistema industriale italiano di affrontare le sfide più gravose, sia quelle legate alla contingenza, come energia e debito, sia in raffronto a sconvolgimenti epocali come Covid e guerra in Ucraina?

Intanto, se guardiamo all’avvocato come stimolo per affrontare questo problema, dobbiamo pensare quali erano i suoi parametri di riferimento. La “formula Agnelli” aveva cinque elementi che sono la famiglia, la fabbrica, Torino, la Stampa (con dentro la Juve) e l’internazionalismo. Ovvero, essere profondamente radicati in un’identità italiana che poi declinava così: “Sono italiano in quanto torinese, sono europeo in quanto italiano”, quindi in un sistema di vasi comunicanti. Riusciva ad avere un’identità radicata con Torino, ma nello stesso tempo aveva una visione complessiva e sapeva fare i collegamenti tramite tutti i relé culturali che ti tengono dentro un circuito internazionale. Non aveva una visione angusta o limitata. Ma non è tutto.

Ovvero?

Il secondo elemento è da ritrovare nel legame col territorio, che significava farsi carico anche del suo destino e quindi sentire, di diritto o di rovescio, una responsabilità sociale. La Fiat è stata attraversata da una guida delegata, perché lui non ha mai gestito in prima persona l’azienda ma l’ha delegata ad altre persone, che l’hanno gestita con dei metodi anche molto disinvolti che lui faceva finta di ignorare. Però il suo essere legato al territorio significava farsi comunque delle domande sul destino di Torino e sul destino delle fabbriche: questo è stato un atteggiamento continuo.

Vuol citare un ricordo di questo?

Mi ricordo quella volta che, dal suo ufficio, guardavamo i tetti di via Chiabrera dove c’era lo stabilimento storico della Fiat. C’era una di quelle scritte liberty, dentro un ovale sulla parte alta del frontespizio. Io mi trovavo in piedi alla finestra e lui mi indicò quelle quattro lettere: la F di fabbrica, la I di Italia perché eravamo ancora italiani, la A di auto che è ancora il core business e la T di Torino. Questa era la lettera più importante perché lui sentiva una responsabilità sociale che passava attraverso una mitologia di Torino, una città che veramente ha mitizzato grazie ad un pregiudizio costantemente positivo. Sentiva che rappresentava una delle forze che avevano in mano il destino della comunità. In questo senso si sentiva responsabile.

In una fase storica caratterizzata dall’assenza di grandi leader dalla grande personalità, come quella di Gianni Agnelli, un Paese come il nostro, con i suoi limiti e con i suoi difetti, ma anche con grande creatività e anche con la voglia di provare a rialzarsi, quale pillola di insegnamento dell’avvocato può veicolare alle classe dirigente e a quella industriale?

Ma intanto bisogna interrogarsi se abbiamo una vera classe dirigente e se abbiamo un vero establishment. Io ho sempre avuto in mente che noi abbiamo un network che si auto perpetua, si auto garantisce, si autodefinisce e si autotutela. Non sono sicuro che abbiamo una classe dirigente: per classe dirigente s’intende quella formazione sociale in grado di unire l’interesse particolare, legittimo, con l’interesse generale del Paese. Se ti poni questa domanda ti viene qualche dubbio sul fatto che noi siamo guidati da una vera classe dirigente. Per cui il filo conduttore è quello della democrazia, ma non perché la democrazia sia in pericolo da qualche attacco, ma perché c’è una disaffezione da parte dei cittadini. Purtroppo la crescita delle disuguaglianze e soprattutto la marginalizzazione di alcune fette della società creano dei problemi alla democrazia e la chiamano in causa perché la democrazia, a malincuore, sopporta le disuguaglianze ma non riesce a sopportare le esclusioni. Per principio o vale per tutti o c’è qualche problema nel manico. E dato che ci sono fette di società che si sentono escluse, tagliate fuori, queste persone potrebbero dire a noi che la nostra democrazia è un insieme di belle parole, di buoni principi, ma valgono soltanto per i garantiti, non per gli altri.

Un invito a fare un passo laterale?

Un invito a entrare per un momento nella zona dei non garantiti, dei tagliati fuori, di quelli che si sentono esclusi. E capire che la democrazia fin qui non arriva e questo è un problema. Noi sappiamo che le crisi non sono neutrali, ma non avremmo mai detto che la crisi poteva chiamare in causa la democrazia, perché siamo stati abituati per settant’anni a considerare la democrazia occidentale come una risorsa naturale, mentre invece è semplicemente una costruzione umana e quindi ha tutte le sue fragilità e rischia di avere un inizio, un culmine e una fine. Per cui questa democrazia ha bisogno di tutela, di manutenzione. Noi non ne siamo consapevoli, usiamo la nostra libertà per criticarla: una cosa che è comunque positiva, perché la critica è un atto politico ed è un atto di partecipazione. Ma la usiamo anche per dileggiarla, per disprezzarla, nonostante la libertà che ci concede, fino al punto ovvio per noi di concederci la libertà di questo dileggio.

Con quali conseguenze?

Che non sentiamo il bisogno di tutelare la democrazia come una merce preziosa. È uno strumento indispensabile ma delicato. L’essere democrazia corre questo pericolo, dimostrato dal fatto che la gente non va a votare, che ritiene che la posta in gioco sia comunque così bassa che non vale la pena alzarsi dal divano. Questo è un problema, perché significa che il discorso che c’è dietro è che sono tutti uguali e questa è la matrice di ogni populismo, di destra e di sinistra. Ciò rappresenta il degrado della democrazia quotidiana, quella delle piccole cose, quella della vita di ogni giorno: questo si sta consumando.

@FDepalo

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