Nel 2019, sotto il governo Conte I (Salvini ministro dell’Interno), Pechino avrebbe tentato un terzo accordo rafforzato con l’inserimento diretto di forze di polizia cinesi nelle questure italiane. Dal G20 di Bali al G7 di Hiroshima, gli occhi dei difensori dei diritti umani sono già puntati sul summit di maggio con due obiettivi strettamente collegati: aumentare la resilienza delle supply chain e un coordinamento democratico contro le interferenze autoritarie. Il commento di Laura Harth, Campaign Director Safeguard Defenders
Dal Covid-19 all’invasione russa dell’Ucraina: se gli anni passati hanno ricordato qualcosa è che le storture e le barbarie dei regimi autoritari non rimangono mai confinate ai loro territori. Inevitabilmente, prima o poi, essi sconfinano e ci colpiscono. Marco Pannella diceva che “dove c’è strage di diritto, c’è strage di popoli”. Potremmo aggiungere: strage economica, alimentare, energetica, di sicurezza.
Pochi luoghi al mondo potrebbero evocare meglio di Hiroshima sia i ricordi del trasbordo del nazionalsocialismo in una guerra mondiale catastrofica sia la sofferta rivincita democratica con cui il Giappone è sorto dalle ceneri. Fa riflettere che l’attuale assetto G7 sia composto a metà – con il regime di Vichy che fa tornare i conti alla perfezione – da quello che fu all’epoca l’asse del male. Oggi, per quanto sempre in divenire imperfetto, rappresentano un’alleanza a difesa di libertà, democrazia, diritti umani e la prosperità economica che ne è stata frutta.
In questa fase, sullo sfondo di un Indo-Pacifico centrale, quell’alleanza si ritrova a dover di nuovo affrontare delle sfide sistemiche da un nuovo asse che si contrappone direttamente a quei valori fondamentali e così facendo – contrariamente alla sua propaganda – mina gravemente a quella prosperità comune per l’umanità. Una realtà sentita pesantemente dal mondo intero, non meno dagli italiani.
Come allora, si impongono delle scelte difficili e dolorosi. L’ora è tarda. Il trasbordo delle stragi è già iniziato, inevitabilmente aumentando il prezzo del contrasto. Per troppi anni si è permessi ai regimi di Mosca e Pechino di affilare le armi oggi puntate contro il mondo democratico: dalle dipendenze energetiche agli intrecci economici e finanziari. Fanno parte della prima linea di un attacco sistemico frontale che mina al tessuto sociale e veicola pericolosamente l’opera continua di influenze e interferenze maligne nel sistema-paese. Un’opera che sfocia apertamente nella propaganda incessante e la crescente repressione transnazionale. Un’opera che ancora una volta rende il contrasto ai regimi autoritari non più solo una questione morale a sostegno dei valori fondamentali per tutti ovunque, ma una questione pienamente domestica: per noi, qui.
E quindi: quo vadis Italia? Non nutrendo nessun dubbio sul fermo collocamento dell’Italia tar le alleanze democratiche, posso esprimere per questo nuovo anno l’altrettanto ferma speranza che il governo Meloni voglia e riesca a dare una svolta talmente coraggiosa da erigerci a leader europeo sul posto in gioco.
Dall’aumento della resilienza democratica delle supply chain a una risposta coordinata alla repressione transnazionale e le interferenze autoritarie per irrobustire le nostre democrazie: ancor più che auspicabile sarebbe una rivincita per l’Italia cambiare radicalmente la sua posizione dall’essere il Paese che contrastò l’inserimento di un riferimento specifico alla Cina sul contrasto al lavoro forzato nel comunicato G7 di Carbis Bay nel 2021, a rappresentare un faro guida nell’Unione europea ove Germania e Francia sono latitanti sebbene c’è all’interno dell’Unione – soprattutto in un Europa dell’Est fortemente ispirato – un fronte crescente di Paesi pronti per una posizione coordinata più forte.
Come detto, però, affinché quel sogno si possa avverare occorre un operato interno e internazionale. La guerra ibrida in corso si gioca innanzitutto all’interno della nostra società. Inutile, se non impossibile, invocare un coordinamento democratico contro le interferenze autoritarie se non si è pronti ad affrontare seriamente la questione a casa propria.
E su questo duole rimarcare che sembra ancora mancare il coraggio necessario. Difficile non notare come l’Italia sembri quasi preferire giocare di rimessa. Se non tirata in ballo dai media internazionali o per la giacchetta da una capitale democratica o l’altra, le questioni non vengono affrontate. Il tutto mentre il Paese è diventato negli anni bersaglio preferito all’interno del G7 per le politiche di interferenze dei regimi autoritari. Basti ricordare gli esempi facili del Memorandum sulla Via della Seta e gli innumerevoli accordi anomali tra i giganti dei media italiani e la macchina della propaganda di Pechino.
La questione delle stazioni clandestine di polizia cinesi – direttamente sollevata con il leader Xi Jinping al G20 di Bali da almeno due leader democratici, il premier canadese Justin Trudeau e quello olandese Mark Rutte – ne sono solo l’ultimo lampante esempio. La stragrande maggioranza dei Paesi democratici alleati hanno avviato indagini approfondite che – come da raccomandazione – vanno ben oltre gli indirizzi specifici, ma mirano a aprire l’intero vaso di pandora sulla repressione transnazionale che arriva della Repubblica popolare, nonché il vasto operato del Fronte Unito cinese all’interno del mondo politico, accademico ed imprenditoriale. In Italia, invece, si ha a stento ottenuto un’ancora vaga risposta del ministro degli Interni alle ottime domande dell’onorevole Riccardo Magi nell’Aula di Montecitorio.
Risposta che stona quanto mai con il ruolo di spicco che proprio l’Italia ha avuto per Pechino nel pilotare questo ennesimo schiaffo al diritto internazionale e la sovranità territoriale grazie all’abuso di due accordi bilaterali di cooperazione di polizia anch’essi del tutto anomali nel quadro europeo e democratico. Pare evidente – o dovrebbe esserlo – che occorre fare i conti con il perché il regime comunista abbia avuto gioco così facile per così tanto tempo, arrivando addirittura – secondo quanto riferitoci da fonti autorevoli italiane – a tentare un terzo accordo rafforzato nel 2019 sotto il governo Conte I che avrebbe visto l’inserimento diretto di forze di polizia cinesi nelle questure italiane. Tentativo – sempre secondo quanto riferitoci – stoppato molto opportunamente dalla Farnesina.
Non si tratta di questioni nuove. È tutto già stato detto e ridetto (si può solo sperare non occorrerà dirlo fino ad nauseam – ricordandoci con una certa vena di auto-ironia di una tecnica molto pannelliana), e la storia recente insegna che comunque vada, l’Italia prima o poi si adeguerà. Basti pensare appunto alla giusta retromarcia sull’accordo già menzionato sulla Via della Seta o per esempio quello Ansa-Xinhua. La vera scelta per il governo sta nell’ambire di giocare la partita in prima linea all’interno dell’alleanza democratica o nelle retrovie.
Senza prendere decisioni affrettate, se – come auguro ardentemente – si opta per la prima opzione occorre quanto prima avviare una vera e propria opera di ricognizione istruttoria sull’esposizione complessiva del nostro Paese alle influenze e interferenze autoritarie in tutti i settori della nostra società per arrivare forti agli appuntamenti internazionali dell’anno a venire. Un anno con un’Italia ahead of the curve.