Cronistoria della Jugoslavia e di come ripercorrerla possa aiutare a comprendere le tensioni che si muovono ora nei Balcani e in Serbia. Il punto di Giancarlo Elia Valori
Il 28 giugno 1948 la “Rudé Právo” – organo centrale del Partito Comunista di Cecoslovacchia – pubblicò la risoluzione del Kominform che espelleva il Partito Comunista di Jugoslavia dal suo seno, accusando Tito di politica odiosa nei confronti dell’Unione Sovietica e di propaganda trotzkista e controrivoluzionaria.
Ci dice un’attenta analisi della professoressa fiumana Carla Konta nel saggio La diplomazia pubblica e culturale americana in Jugoslavia negli anni Cinquanta e Sessanta che la scomunica staliniana di Tito, spinse il capo jugoslavo a rivolgersi verso l’Occidente in cerca di alleanze, sostegni finanziari e tecnico-militari necessari alla sopravvivenza del Paese e alla sua crescita. Non appena la gravità della crisi sovietico-jugoslava diventò palese, la logica della guerra fredda determinò un immediato sostegno a Belgrado da parte del blocco occidentale. Negli anni Cinquanta la Jugoslavia divenne il partner “comunista” degli Stati Uniti d’America e la grande quantità di aiuti di Washington, assegnati in forma di beni alimentari, denaro a fondo perduto, crediti finanziari, posticipazioni delle rate creditizie e assistenza tecnico-militare attraverso la CIA (f. 1947), il Mutual Defense Aid Program (f. 1949), ecc., trasformò il regime titino in un palese alleato della Casa Bianca, e contemporaneamente pure una quinta colonna nello schieramento socialista nei Paesi in Via di Sviluppo.
Per cui, aggiungo che la Jugoslavia si mise a disposizione dell’Occidente ma senza intaccare la sua apparenza socialista. Era naturale che per Belgrado fosse fondamentale mantenere la forma di governo che di Stato indipendente sia al cospetto dei propri popoli, sia nei confronti dei Paesi del Movimento dei Non-Allineati e del Terzo Mondo. La Jugoslavia – nella grande finzione di scenario – agì in tal senso non entrando nella NATO, ma al contempo senza rinunciare ai sussidi essenziali per la modernizzazione dell’esercito che lo rendevano fra i più potenti e saldi del pianeta. Al punto che nel 1980 – anno in cui morì Tito – la Jugoslavia, era uno dei dieci più grandi esportatori d’armi al mondo. Secondo i dati ufficiali, con questo commercio era acquisito il 72% della valuta necessaria per comprare altri armamenti. E per favorire le vendite, già nel 1970 era stata allestita un’esposizione permanente a Nikinci, un villaggio nei pressi di Šabac – città e municipalità del distretto di Mačva nel nord-ovest della Serbia Centrale, al confine con la Vojvodina e la Bosnia ed Erzegovina, situata sulle rive del fiume Sava. Là i potenziali acquirenti potevano provare le armi anche su un poligono di tiro. Annualmente vi facevano tappa 3-400 delegazioni, per due terzi provenienti dall’estero.
Orbene va aggiunto che tale ludus scenicus durò sino a che restò in piedi il Muro. Dopo il suo crollo la Jugoslavia non serviva più alla Casa Bianca, e i popoli che componevano quello Stato – i quali la propaganda politicamente corretta, sempliciotta e servile del partito comunista italiano, titista e pro-foibe, affermava si amassero in una sorta di Paradiso in terra – iniziarono a scannarsi in un modo che a confronto la guerra fra Russia e Ucraina è ancora ben poca cosa. Ricordo, a quelli che le hanno dimenticate: la guerra d’indipendenza della Slovenia (1991); la guerra d’indipendenza in Croazia che durò quattro anni (1991-95); la guerra etnico-religiosa in Bosnia ed Erzegovina triennale fra cattolici croati, musulmani bosniaci e ortodossi serbi (1992-95); ed infine la guerra per l’indipendenza degli albanesi del Kossovo della durata di due anni (1998-99). La guerra non era alle porte dell’Europa come oggi, ma in Europa e a pochi passi da noi. In totale dieci anni: dal 31 marzo 1991 al 12 novembre 2001.
In un’Europa senza attributi e priva di un esercito, ricca solo di chiacchiere e moralismi da quattro braccia una lira, si vuol dimenticare che le guerre all’occaso della Jugoslavia socialista sono descritte come il conflitto armato più mortale d’Europa dalla II Guerra Mondiale. Le guerre jugoslave sono state contrassegnate da innumerevoli crimini di guerra, tra cui genocidio, crimini contro l’umanità, pulizia etnica e stupri di massa. I massacri bosniaci sono stati il primo evento bellico europeo ad essere formalmente classificati come di carattere genocida dopo i crimini del III Reich tedesco, e molti personaggi chiave dell’ex Jugoslavia che lo hanno perpetrato sono stati successivamente accusati di crimini di guerra. Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia è stato istituito dalle Nazioni Unite all’Aia, nei Paesi Bassi, per perseguire tutti coloro che avevano commesso crimini di guerra durante i conflitti.
Secondo il Centro internazionale per la giustizia di transizione, le guerre jugoslave hanno provocato – a pochi chilometri dalle poltrone occidentali dei capi dell’Europa che conta – la morte di 140.000 persone, mentre il Centro di diritto umanitario stima almeno 130.000 vittime. Nel corso della loro durata decennale, i conflitti hanno provocato anche gravi crisi umanitarie e di rifugiati. Però oggi si cerca di dimenticare un evento favorito dall’impotenza europea e dalle convenienze di alcuni Paesi dell’attuale Ue che allora, per interessi di bottega, favorirono e riconobbero l’indipendenza di alcune componenti della Jugoslavia in via di disfacimento urtando la suscettibilità di Belgrado e della componente serba.
Però cosa resta alla Serbia oggi dell’eredità jugoslava? Dopo la secessione fra il 1991 e nel 1992 di quattro delle sei repubbliche costituenti la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (Socijalistička Federativna Republika Jugoslavija), lo Stato superstite, ribattezzato Repubblica Federale di Jugoslavia (Savezna Republika Jugoslavija), dichiarò di essere il successore della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, però le nuove repubbliche indipendenti obiettarono. I rappresentanti di Belgrado al contempo continuarono a detenere il seggio originario jugoslavo alle Nazioni Unite, tuttavia gli Stati Uniti d’America, rigettarono i loro ex servitori e si rifiutarono di riconoscerlo. La popolazione e il territorio della nuova Repubblica Federale di Jugoslavia erano meno della metà di popolazione e territorio della precedente RSFJ.
Nel 1992 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu con la Risoluzione 777 del 19 settembre, e l’Assemblea Generale con Risoluzione 47/1 del 22 settembre, decisero di non permettere alla nuova RFJ di sedere nell’Assemblea Generale sotto il nome di “Jugoslavia” sulla base del fatto che la RSFJ si era dissolta. La Repubblica Federale di Jugoslavia (nel 2003 ribattezzata Unione Statale di Serbia e Montenegro) fu ammessa come nuovo membro delle Nazioni Unite il 1° novembre 2000: nel maggio 2006 il Montenegro dichiarò l’indipendenza e la Serbia da allora ha continuato a detenere il seggio dell’ex Unione Statale di Serbia e Montenegro.
È bene comunque tornare sulla questione della successione dell’ex Jugoslavia, per meglio far comprendere come questo esperimento inaugurato il 1° dicembre 1918 (Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), riconosciuto ufficialmente all’indomani della Conferenza di pace a Versailles del 1919, a conclusione della I Guerra Mondiale, e rafforzato a conclusione della II Guerra Mondiale a Jalta, fosse rifiutato e detestato dai popoli componenti la ex Federazione al punto da cassare il suo nome dalla storia.
I primi negoziati sulle questioni della successione dell’ex Jugoslavia socialista erano iniziati nel 1992 nell’ambito del gruppo di lavoro della Conferenza di pace per la Jugoslavia, che si era aperta il 7 settembre 1991. L’accordo fu inizialmente bloccato dall’insistenza della predetta Repubblica Federale di Jugoslavia (Serbia+Montenegro) di essere l’esclusiva continuatrice legale e politica della Jugoslavia socialista, nonché proprietaria di tutti i beni statali del precedente governo federale socialista, ed essa però era disposta a rinunciare a una parte dei beni solo come atto di buona volontà. La Repubblica Federale di Jugoslavia cercò d’interpretare la disgregazione della Jugoslavia socialista come un processo di secessioni seriali e non come un completo smembramento dello Stato precedente: ma tale interpretazione è stata recisamente respinta dalle altre ex repubbliche jugoslave.
La Commissione Arbitrale della Conferenza per la Jugoslavia (conosciuta comunemente come Comitato Arbitrale Badinter) raccomandava, invece, una divisione delle attività e delle passività basata sul principio di equità e faceva persino riferimento alla Convenzione di Vienna del 1983 sulla successione degli Stati in materia di proprietà dello Stato, archivi e debiti (convenzione non in vigore all’epoca, firmata solo da sei Stati membri, tra cui la Jugoslavia socialista). Questa proposta era inaccettabile per la Repubblica Federale di Jugoslavia, che quindi ha motivato il Fondo Monetario Internazionale a sviluppare un modello chiave alternativo che includesse il potere economico delle repubbliche e il loro contributo al bilancio federale che è stato accettato da tutti. La partecipazione chiave ha determinato la Repubblica Federale di Jugoslavia con il 36,52%, la Croazia con il 28,49%, la Slovenia con il 16,39%, la Bosnia-Erzegovina con il 13,20% e la Macedonia con il 5,20%; fu raggiunto anche un accordo sull’oro e altre riserve presso la Banca dei regolamenti internazionali.
Dopo la fine dei bombardamenti Nato su Belgrado, Serbia e Montenegro, seguiti l’anno successivo dal tramonto di Slobodan Milošević (5 ottobre 2000), gli Stati successori conclusero il loro accordo. Nel 2001, con il sostegno della comunità internazionale, cinque Paesi (Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia – oggi Macedonia del Nord – e Repubblica Federale di Jugoslavia – Serbia+Montenegro) firmarono l’Accordo di Successione: essi hanno definitivamente confermato che cinque Stati successori sovrani eguali si erano formati dopo lo scioglimento dell’ex Jugoslavia socialista. Tale accordo entrò in vigore il 2 giugno 2004 quando l’ultimo Stato successore lo ratificò. L’accordo è stato firmato come un trattato complessivo che comprendeva allegati su proprietà diplomatiche e consolari, attività, interessi e passività finanziarie, archivi, pensioni, altri diritti, nonché proprietà private e diritti acquisiti. Al successivo scioglimento nel 2006 anche dell’Unione Statale di Serbia e Montenegro (uno degli anzidetti cinque Stati successori) i due Paesi hanno concordato l’unica successione serba dei diritti e degli obblighi della loro ex federazione.
La tragica eredità del “Paradiso in Terra” jugoslavo era cancellata per sempre.