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Attenzione a rinunciare al 41 bis, la mafia non è sconfitta. Scrive Scotti

In questa fase di transizione è necessario ricordare gli enormi risultati ottenuti nella lotta alla mafia proprio con quella legislazione e quegli strumenti che rischiano di essere messi in discussione. Lo Stato, responsabile della sicurezza del Paese, non può avere esitazioni nel trasmettere ai mafiosi messaggi non contradditori. Vincenzo Scotti, già ministro dell’Interno, interviene sul dibattito intorno al 41 bis

Un importante quotidiano nazionale, nella edizione degli ultimi giorni, ha ospitato due importanti interviste – sul tema dell’ergastolo ostativo e del 41 bis – a due magistrati di spicco, da tempo impegnati sul fronte della criminalità in Sicilia: il dottor Scarpinato e il dottor Di Matteo. Professionisti che hanno dedicato molto alla lotta alla mafia e per questo motivo conoscono e hanno ampiamente utilizzato il 41 bis, provvedimento che fa parte del decreto legge dell’8 giugno 1992, approvato a sedici giorni dalla strage di Capaci a completamento della legislazione antimafia dei due anni precedenti.

Scarpinato, nella sua intervista, paventa il rischio che nell’opinione pubblica si consolidi la narrativa di una mafia sconfitta, così ponendo le premesse per il definitivo smantellamento delle leggi speciali antimafia incluso il 41 bis. Di Matteo, in procinto di tornare alla direzione nazionale antimafia, sempre nella citata intervista, ha ricordato che nelle strategie più alte di Cosa nostra, l’obiettivo politico è sempre stato quello di arrivare a modificare le leggi antimafia sul 41 bis e altre norme del Decreto Legge del giugno 1992, auspicando l’abolizione dell’ergastolo.

In quegli anni le due diverse tattiche utilizzate dai boss andavano dal ricorso alle stragi e ai tentativi di “confrontarsi” con lo Stato e trovare strade per allentare la pressione della legislazione antimafia.

Negli anni 1993- 1994, la stagione delle bombe e dei tentativi di nuove stragi a Roma e Firenze (è bene sottolineare questa strategia della tensione) ebbe sempre come obiettivo proprio l’abolizione dell’ergastolo e del 41 bis.

Le preoccupazioni espresse dai due magistrati erano ben presenti ai ministri di Giustizia e Interni di allora nel duro dibattito al Senato che accompagnò la presentazione del decreto legge dell’8 giugno. In particolare, sia lo sciopero dei magistrati che la bocciatura della prima votazione in Commissione affari costituzionali, portarono ad una sospensione dell’esame del provvedimento, in attesa della formazione del nuovo governo che avvenne poi il 29 giugno. Ma come si arrivò all’approvazione del decreto legge dell’8 giugno, da parte di un governo in ordinaria amministrazione?

Ricordo bene i fatti vissuti subito dopo quel drammatico 23 maggio 1992 con l’uccisione di Falcone e la sua scorta. Con Martelli e il presidente della commissione Antimafia Gerardo Chiaromonte, proprio di ritorno a Roma da Palermo all’alba del 24 maggio, convenimmo che fosse necessaria l’adozione di una serie di misure che mettesse fine all’azione violenta della mafia ed esplicitasse la dura risposta dello Stato a quell’attacco stragista e a quella terribile domenica a Palermo con i funerali di Falcone e di sua moglie e la sua scorta.

La voce straziata della giovane moglie di un uomo della scorta scosse tutti nel Duomo di Palermo. Il Decreto legge fu pronto in brevissimo tempo perché ci stavamo lavorando da settimane, sempre in contatto con Giovanni Falcone. L’azione repressiva, pur di fronte a responsabili di efferati uccisioni e stragi, non voleva esprimere nessuna volontà di “rivincita” da parte dello Stato, consapevole dei diritti fondamentali di ogni cittadino. Il provvedimento nasceva per spingere a collaborare, e quindi iniziare un percorso di “ravvedimento” con la giustizia ed evitare, nell’immediatezza, altre stragi.

Ieri come oggi, era indispensabile adottare misure dure, ma era altrettanto importante lasciare la porta aperta perché i boss potessero collaborare concretamente con la giustizia e interrompere i legami con l’organizzazione criminale; ciò gli avrebbe consentito di evitare proprio quelle dure misure. Non dimentichiamo che i destinatari di tali misure erano – e ancora oggi sono – parte di una organizzazione criminale e che essi stessi avevano ucciso o fatto uccidere un numero notevole di servitori dello Stato, magistrati, forze dell’ordine, funzionari civili, politici, sacerdoti e bambini di cui non vogliamo perdere memoria anche con il passare degli anni.

Le norme sui collaboratori di giustizia e il 41 bis erano parte di una azione che lo stesso Giovanni Falcone aveva definito “delicatissima” perché richiedeva magistrati sempre più di altissimo livello, rigore e non aveva serenità nel giudicare, per non rischiare che fosse il collaboratore a influenzare il magistrato”. In questa fase di transizione è necessario ricordare gli enormi risultati ottenuti nella lotta alla mafia proprio con quella legislazione antimafia e quegli strumenti che rischiano di essere messi in discussione. Lo Stato, responsabile della sicurezza del Paese, non può avere esitazioni nel trasmettere ai mafiosi e ai colletti bianchi messaggi non contradditori e incerti sulla linea da perseguire.

Vi sono chiare esperienze in questi trenta anni che la cosa più importante per i boss mafiosi è poter dire ai propri “picciotti” che hanno costretto lo Stato a cedere a qualche loro “rivendicazione”. Nel 1991 dopo la conclusione del maxi processo con le condanne a tanti ergastoli, una sentenza della Corte di Cassazione, con una revisione del calcolo della durata del carcere preventivo, rimise in libertà i condannati a quegli ergastoli. Questo consentì ai mafiosi di poter dire che essi erano più forti dello Stato. La decisione dell’intervento di urgenza del governo per riportarli in carcere fu una delle ragioni scatenanti delle stragi del 1992.

Oggi si è constatato che, pur di fronte ad una “mutazione di pelle” persistono ancora vecchie modalità dei boss di controllare il territorio, di contare sulla disponibilità di una connivenza di antichi mafiosi e di una vecchia società mafiosa.

Oggi la nuova “mafia opera attraverso una condotta silente e mercatista, che si fa forte del potere economico corruttivo stabilmente infiltrato senza violenza fisica la violenza dei “flussi finanziari”. La nuova, come stiamo costatando giorno dopo giorno, avanza e si accompagna a quella antica.

Questo mix di antico e nuovo non è meno pericoloso, meno violento e meno pronto a tornare addirittura alle stragi. Questo mutamento richiederebbe alcuni cambiamenti che partono proprio da “una fattispecie incriminatrice, così come auspicata, che potrebbe far rientrare a pieno titolo nell’alveo dell’art. 416 bis anche le relazioni illecite fra apparati pubblici e crimine organizzato in forma stabile e associata che caratterizzano il fenomeno storico delle mafie contemporanee”. Un autorevole magistrato che studia da tempo questi fenomeni nuovi, evidenzia “una visione olistica dei fenomeni corruttivi” secondo cui mafia e corruzione non possono essere più ritenuti crimini tra loro “distinti e distanti”.



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