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Meloni alla prova dell’alleanza popolari-conservatori. Parla Campi

Il politologo dell’Università di Perugia: “Lo storico condominio tra socialisti e popolari non funziona più sul piano politico ormai da anni, essendosi nel frattempo ridotto a un accordo spartitorio sulle principali cariche. Meloni è sempre più atlantista e collaborativa con l’Ue. Questo cambio ha aperto la strada a un rapporto con i popolari che potrebbe in effetti preludere a una vera e propria alleanza politica in vista delle elezioni del 2024”

Il faccia a faccia tra il capogruppo del Ppe Manfred Weber e la premier Giorgia Meloni è probabilmente il fatto politico più significativo degli ultimi tempi su scala europea e non solo. Il dialogo (o forse più?) tra i due gruppi politici in Ue è sempre più serrato. Meloni probabilmente è consapevole che la presidenza dei conservatori (Ecr) potrebbe conferirgli, nel nuovo scenario che si sta via via profilando, un ruolo di primo piano in chiave internazionale. Parallelamente, il gruppo dei socialisti tramonta e si sgretola sotto la scure del Qatargate. Per capire quali movimenti si stanno costruendo all’orizzonte, Formiche.net ha chiesto un parere ad Alessandro Campi, politologo e docente di Storia delle dottrine politiche nell’Università di Perugia.

Qualcosa si muove sul fronte conservatore europeo. Come leggere l’incontro tra Weber e Meloni?

Gli equilibri politici in Europa stanno lentamente cambiando. Lo storico condominio tra socialisti e popolari, una sorta di Grosse Koalition su base continentale, non funziona più sul piano politico ormai da anni, essendosi nel frattempo ridotto ad un accordo spartitorio sulle principali cariche. La ragione principale di questo cambiamento è ovviamente la crisi, in diversi contesti nazionali, di quegli storici partiti. Pensiamo solo al caso della Francia, dove i socialisti sono praticamente spariti dalla scena pubblica, come del resto in Italia o in Grecia. Ma anche i popolari non se la passano troppo bene: in Germania o in Austria sono ben distanti dalle percentuali di consenso di un tempo. La seconda ragione è che nel frattempo sono emerse altre famiglie politiche. A sinistra, i Verdi. A destra, accanto allo storico gruppo dei conservatori, le formazioni cosiddette populiste, che in alcuni casi (a partire dall’Italia) sono diventate forza di governo e che comunque ormai rappresentano una presenza politica stabile nei diversi sistemi partitici.

In Ue è in vista un’alleanza strutturale tra popolari e conservatori? O sarà una semplice alleanza elettorale per il 2024?

I popolari europei hanno ormai dei concorrenti molto forti alla loro destra, con i quali non ci si può rapportare solo in termini di chiusura e denuncia come si è fatti sinora. Se il dialogo è ancora difficile con i partiti nazional-populisti, è sicuramente più facile con quelli conservatori, con i quali – sul tema dei valori come anche delle politiche sociali – esiste una maggiore affinità. Da questo punto di vista, l’Italia può rappresentare un interessante laboratorio. Si temeva che Giorgia Meloni avrebbe mantenuto nei confronti dell’Europa un atteggiamento polemico, come quando era all’opposizione e denunciava l’ottusa burocrazia di Bruxelles. In realtà ha scelto, per realismo e convenienza, la strada del confronto e della collaborazione, ma senza rinunciare ad avere una posizione autonoma su tutta una serie di dossier (a partire dall’immigrazione). Senza contare il suo rapido allineamento in chiave filo-atlantica. Questo cambio ha aperto la strada ad un rapporto con i popolari che potrebbe in effetti preludere ad una vera e propria alleanza politica in vista delle elezioni del 2024.

Il fronte socialista si sta sgretolando. Il Qatargate è in qualche modo un colpo di grazia. Cosa prevede?

È indubbio che lo scandalo che ha coinvolto alcuni esponenti – ahimé soprattutto italiani, – del socialismo europeo avrà delle conseguenze, specie se le responsabilità dovessero allargarsi. Il danno maggiore, per l’Unione come tale, è una grandiosa perdita di credibilità, che potrebbe spingere ancora meno cittadini a recarsi al voto quando si tratterà di rinnovare il Parlamento europeo. A Bruxelles, questa la percezione che si è diffusa, girano troppi soldi, senza che nessuno controlli. Non solo, ma l’impressione è che la retorica europeista veicolata nei discorsi pubblici sia ormai solo il paravento dietro il quale si nascondono affaristi di ogni risma e politici senza più ideali. C’è poi il colpo specifico al mondo della sinistra progressista: tante belle parole per poi perdersi dietro ad una valigia piena di soldi. Una caduta di tensione culturale che probabilmente dipende da un eccesso di permanenza al potere. Motivo in più per immaginare a Bruxelles una salutare riposizionamento nei rapporti tra partiti.

I tempi sono maturi anche per un grande cantiere conservatore in Italia?

Berlusconi doveva dare vita a un partito liberale di massa ma non è mai uscito dalla sua logica padronale e personalistica. Salvini, chiusa la stagione della Lega nordista e secessionista, ha avuto i numeri per fondare un partito nazionalista, ma è rimasto vittima del suo movimentismo e di un modo di intendere la politica troppo giocato sulla propaganda e sul giorno per giorno, senza un vero orizzonte. Ora tocca alla Meloni provare a costruire una grande partito nazional-conservatore, avendo dalla sua la giovane, una grande determinatezza, la novità dell’essere donna, una consolidata rete di rapporti all’estero (più di quanto spesso si immagini), un solido partito alle spalle e consensi crescenti nei sondaggi. In questi giorni si è parlato di fondere i tre partiti al governo in un contenitore unico, anche solo come sigla comune da utilizzare per le elezioni europee. Ma il precedente sfortunato del Popolo della libertà dovrebbe consigliare a tutti un po’ di prudenza. Non si crea un nuovo contenitore solo per nascondere le proprie difficoltà (come nel caso di Forza Italia e Lega) o perché si crede così di poter frenare l’ascesa solitaria di Giorgia Meloni.

Cosa dovrà aspettarsi il Governo Meloni da qui ai prossimi mesi?

Il difficile per Giorgia Meloni viene ora. La legge di bilancio è stata preparata in condizioni di grande emergenza, economica e politica, internazionale e da un governo che ha avuto pochissimo tempo a disposizione. Al di là delle polemiche, considerata la scarsità delle risorse, credo che si sia fatto quel che si poteva, avendo cura di gestire soprattutto alcune urgenze sociali (a partire dal caro bollette). Si tratta ora di entrare in una prospettiva di lungo periodo, immaginando di avere cinque anni dinnanzi a sé per realizzare il proprio programma. Serve una visione graduale e realistica dell’azione di governo. Avendo cura di selezione bene i temi e i tempi.

Quali sono le priorità nell’agenda politica?

Nell’immediato le politiche sociali e quelle per lo sviluppo mi sembrano più urgenti dell’autonomia differenziata. Tema delicato che investendo il funzionamento dello Stato s’incrocia inevitabilmente con la proposta di riforma presidenziale. Le procedure parlamentari nei due casi sono diverse, come giustamente osserva Calderoli, ma vanno egualmente trattate insieme, in una prospettiva organica, a meno di non voler creare qualche pericoloso cortocircuito istituzionale. Vedo un eccesso di frettolosità nella scelta della Lega di far approvare al più presto il loro disegno regionalista, che peraltro presenta obiettive difficoltà e punti controversi. Immaginare la regionalizzazione della scuola e dei programmi di insegnamento è, per fare un esempio, qualcosa che rischia seriamente di minare l’unità dello Stato italiano storicamente garantita proprio dall’istruzione pubblica di massa su base nazionale. Più in generale, in una fase che potrebbe farsi delicata sul piano delle lotte sociali per via del caro vita, il governo dovrebbe stare attento a non cadere nella trappola propagandistica di chi vorrebbe dipingerlo come insensibile alla povertà e al disagio e come ostile al Sud a beneficio delle regioni ricche del Nord. È una narrativa già oggi molto forte che Meloni deve contrastare con scelte politiche che non la facciano passare come colei che, abolendo il Reddito di cittadinanza, non si è voluta far carico dell’oggettivo stato di difficoltà in cui si trovano, ormai strutturalmente, milioni di italiani e che ha abbandonato i meridionali al loro destino di sottosviluppo.

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