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Partito democratico, aspettando la rivoluzione

Sono due gli elementi decisivi perché il Pd torni forte. Il primo riguarda la guida politica, che deve essere carismatica al punto giusto, perché oggi militanti ed elettori (per la verità da sempre) hanno bisogno di una figura in cui riconoscersi. Il secondo punto riguarda alcuni tabù che dovranno essere abbattuti, come quello in materia di sicurezza (e quindi immigrazione). L’analisi di Roberto Arditti

D’altronde non si può neppure ragionare pensando che la sinistra in Italia debba governare in eterno: l’alternanza si chiama, banalmente, democrazia. Lo dico perché uno degli aspetti più curiosi del dibattito in corso sul futuro del Pd si svolge spesso con toni di sorpresa, quasi di sgomento, di fronte al fatto che nell’anno del Signore 2022 un coalizione di destra-centro vince le elezioni in Italia portando, per di più, una donna a capo dell’esecutivo.

Se partiamo da qui, dalla normalità di una sconfitta, forse si riesce a inquadrare meglio quanto sta accadendo, magari con qualche possibilità di intuire cosa potrà succedere in futuro. Allora diciamolo con franchezza, la sinistra italiana si è nutrita per quindici anni e più (1994-2011) di un elemento “costituente”, quasi unica ragione di esistere (o quantomeno quasi unica ragione di stare insieme, ad esempio tra ex comunisti e ex democristiani, ma anche ex socialisti): essere all’opposizione di Silvio Berlusconi.

Un’opposizione “antropologica” ancor prima che politica, giocata su gusti, stile di vita, linguaggio, gestualità, insomma costruita giorno dopo giorno per dire “si può essere diversi dal Cavaliere”. Poi, certo, c’erano anche profonde divergenze politiche, che però hanno sempre giocato di rimessa rispetto alla presa di distanza “a prescindere”.

Quando però Berlusconi consuma la sua più cocente sconfitta politica, cioè la fine del suo governo nell’autunno del 2011, si conclude un’epoca, di cui l’arrivo a palazzo Chigi di Mario Monti (con il sostegno e la regia politica di Giorgio Napolitano dal Quirinale) è il sigillo d’autenticità.

A quel punto per il Pd, che nel frattempo è diventato tale passando attraverso diverse denominazioni (Pci-Pds-Ds), si tratta di scrivere una diversa sceneggiatura, anche perché nel frattempo si fa avanti l’onda furiosa di Grillo e Casaleggio. Il Pd diventa così il partito della governabilità, diverso dai nuovi barbari a cinque stelle e dai più antichi barbari di destra (neri, verdi o azzurri poco importa).

Operazione che riesce con una certa maestria, giacché il partito resta al governo ininterrottamente per undici anni (2011-2022), con una sola interruzione per il primo governo Conte, ma soprattutto vi resta senza aver mai vinto le elezioni, facendo leva su una capacità parlamentare di costruire maggioranze che è tanto perfettamente costituzionale quanto politicamente spregiudicata, poiché conduce a governare indifferentemente con Alfano, poi con i cinque stelle in versione Di Maio e poi persino con la Lega di Salvini e Forza Italia sotto l’ombrello protettivo di Mario Draghi.

Con questa impostazione di partito “reggitore dello Stato” il Pd arriva alle elezioni 2022, peraltro passando attraverso lotte feroci per la leadership, nelle quali viene anche sbriciolata la segreteria di Matteo Renzi, probabilmente la figura di maggior talento emersa nell’ultimo decennio. Le elezioni vanno come sappiamo e ora il partito si guarda allo specchio, cercando di ripartire tra mille ansie e una gigantesca paura: finire ai margini per numeri e ruolo, esattamente come accaduto in Francia al glorioso Psf di François Mitterand.

L’esito però non è necessariamente quello, anche perché se è vero che in Francia le cose sono andate in quel modo è altrettanto vero che in Spagna e in Germania sono alla guida del governo due solidi socialdemocratici come Sanchez e Scholz. Ma cosa serve alla sinistra italiana per tornare a essere forte? A mio avviso due sono gli elementi decisivi.

Il primo riguarda la guida politica, che deve essere carismatica al punto giusto, perché oggi militanti ed elettori (per la verità da sempre) hanno bisogno di una figura in cui riconoscersi. Il secondo punto riguarda alcuni tabù che dovranno essere abbattuti, come quello in materia di sicurezza (e quindi immigrazione). Se c’è una sciocchezza assoluta è il convincimento che i temi di lotta alla piccola criminalità e dell’ordine pubblico siano temi di destra.

Non è vero per il semplice fatto che città sicure vanno a vantaggio dei più deboli, non certo di chi ha ben altri strumenti per proteggersi. In questo ambito nel Pd occorre una rivoluzione, perché non si è mai voluto accettare il fatto che su quelle questioni gli elettori chiedono certamente alla sinistra di essere rispettosa delle differenze e accogliente rispetto a chi viene da lontano, ma al tempo stesso chiedono di vivere in un contesto più sicuro, a maggior ragione visto che cresce il numero degli anziani.

A ogni modo il partito è vivo e lo dimostra anche la battaglia per la segreteria, con Bonaccini, Schlein e De Micheli in campo. Penso che al Pd serva di più la vittoria del primo, a condizione che il governatore si faccia poi interprete di un robusto salto generazionale: la classe dirigente degli ultimi quindici anni ha dato più o meno tutto quello che aveva.

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Questo articolo è stato pubblicato sul numero di gennaio 2023 della rivista Formiche



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