Un primo pilastro, essenzialmente perequativo, concerne l’intervento a garanzia dei diritti costituzionali di cittadinanza: istruzione, salute, mobilità locale. Il secondo, che pur con intenti di perequazione infrastrutturale, mira più direttamente a conferire un rinnovato impulso alle potenzialità di sviluppo del Paese. Ne parla Adriano Giannola, presidente dello Svimez, nell’ambito del lavoro del Gruppo dei Venti su equità e sviluppo
Gruppo dei Venti – focus su equità e sviluppo: gli articoli di Alessandro Minuto-Rizzo e Gloria Bartoli
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Il Piano Nazionale è la riedizione dell’intervento straordinario applicato al Paese, non più al solo Mezzogiorno, in un lasso di tempo straordinariamente breve, privo di strumenti straordinari. Il rischio – già in atto – è di dover fare ampio ricorso a decretazioni di urgenza, cioè alla peggiore straordinarietà possibile.
Il piano si articola in due fondamentali ambiti di azione collegati alle condizionalità dettate dalla Ue.
Un primo pilastro, essenzialmente perequativo, concerne l’intervento a garanzia dei diritti costituzionali di cittadinanza: istruzione, salute, mobilità locale. Il secondo, che pur con intenti di perequazione infrastrutturale, mira più direttamente a conferire un rinnovato impulso alle potenzialità di sviluppo del Paese.
Il primo pilastro, il più semplice da definire è il più arduo da realizzare per la sua finalità smaccatamente perequativa. Di estrema facilità se si seguisse la logica di una assegnazione di risorse erariali orientata ad assicurare uniformità di accesso ai diritti fondamentali di cittadinanza conformi al dettato della riforma del titolo V della Costituzione del 2001 che li ha identificati e alla legge 42 del 2009 che li ha addirittura normati. In merito alla funzione del Pnrr è da puntualizzare:
- L’ allocazione delle risorse per l’ intervento infrastrutturale concernente i “diritti” (istruzione, sanità, mobilità territoriale) è responsabilità del governo centrale.
- Il governo, non dovrebbe, di conseguenza, operare per “bandi competitivi” che mettono in competizione – attraverso istituzioni che li rappresentano – i cittadini sui diritti costituzionalmente garantiti. I bandi competitivi sono utili solo ad allungare i tempi, distorcere il processo di allocazione in nome di una ideologia di “salutare” competizione.
Dovrebbe altresì essere evidente – per il tempo necessario alla perequazione – la incompatibilità di ogni pretesa di “autonomia rafforzata”, in ossequio proprio all’ ultimo comma dell’art. 116 Cost che subordina l’attuazione del 116 comma tre all’adempimento dell’art. 119 Cost (e alla successiva legge 42/2009 di attuazione dell’art.119).
Quanto ai metafisici, perciò indefinibili, Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), la perequazione dei diritti costituzionali non può che essere realizzata, sulla base delle risorse disponibili, adottando il criterio di uniformità territoriale delle dotazioni pro capite. Criterio da rendere immediatamente operativo in sostituzione della spesa storica. Evidentemente in antitesi con l’autonomismo che mira ad affermare la sovranità regionale.
Sembra evidente a che finché prevale l’assioma dello Stato “arbitro” e non “regista”, sarà difficile che il novellato intervento straordinario produca un cambiamento di “rotta” per realizzare il quale esso non può sottrarsi alla responsabilità di definire “che fare”.
A due anni dall’avvio del Piano Nazionale si può ragionevolmente predire che saremo delusi se ci aspettassimo che all’ardua impresa bastino le autorità di missione dei ministeri.
Il Southern Range, la via più breve alla transizione
La strategia della transizione rappresenta il cuore del secondo pilastro del Pnrr. La transizione energetica, che si è fatta molto più critica con la guerra in corso in Europa, parte dalla logistica dei trasporti, un comparto nel quale il potenziale impatto della rivoluzione logistico-intermodale consente di concretizzare il potenziale vantaggio della nostra peninsularità che nel contesto Ue rende il nostro Paese un “bene posizionale”, la naturale piattaforma logistica nel Mediterraneo. A questo vantaggio potenziale non ha corrisposto finora la capacità di metterlo a valore con una strategia nazionale di attrezzare adeguatamente “la” piattaforma. Il Pnrr prima versione aveva addirittura individuato in Trieste e Genova “i porti strategici del Paese” e relegato al rango di “porti turistici” quelli del Sud, cioè quelli essenziali per una strategia tesa a costruire un Southern Range, tuttora fantasma per governo e Regioni. A quasi due anni dal varo del Piano il Southern Range rappresenta un’opzione in campo ancora preterintenzionalmete affidata ad un illuminato coordinamento di ZES e ZLS del quale non vi è traccia; lo stesso dicasi per l’ancora più ipotetica strategia delle autostrade del mare, opzione affidata al lievitare della forza delle cose.
Quello che è certo che la via maestra della transizione energetica che tanto ci assilla verrebbe spianata subito, ridotti i suoi costi e i suoi tempi con il rapido articolarsi di un Southern Range dotato di autostrade del mare sostitutive del trasporto a lunga percorrenza su strada.
Si realizzerebbe così l’ottimizzazione dell’uso delle fonti fossili con un enorme vantaggio in termini di emissioni e di riduzioni nell’ uso dei combustibili fossili. Un progetto pubblico-privato di intermodalità pianificata, porterebbe ad una drastica riduzione di tempi per cogliere gli obiettivi a noi assegnati da Eu 2030 e 2050 e un consolidamento del potere contrattuale in sede dell’Unione su molti fronti.
Un elementare esercizio previsionale offre un’indicazione del differenziale tra questo Pnrrh (Hirschmaniano) e il pigro Pnrr passivo e pedissequo svolgimento di “compiti a casa” assegnati dalla Ue.
Rimanendo al trasporto a lunga percorrenza, quello stradale nazionale confrontato all’ alternativa del trasporto via mare, tradotto in variazione delle emissioni di CO2 per un identico ammontare di tonnellate di merci trasportate, segna un differenziale di emissioni di CO2 estremamente significativo e rafforza al contempo la “autonomia” energetica nazionale misurata in minore quantità di fonti fossili impiegate.
Il target comunitario per il settore dei trasporti autostradali per il 2050 è la riduzione del 60% delle emissioni rispetto ai livelli del 1990. Esso rappresenta il contributo all’obiettivo europeo della Roadmap for a low carbon economy che mira ad una riduzione dell’80-95% fissato nel 2011 .
Il settore dei trasporti è attualmente responsabile in Italia di circa il 30% del totale nazionale di tutte le emissioni di gas serra. Nel 2018 il 72% delle emissioni di anidride carbonica del settore trasporti è imputabile al trasporto passeggeri ed il 28% al trasporto merci; la quota di emissioni dovuta complessivamente al trasporto stradale di passeggeri e merci è pari al 92,9% e del 7,1% la quota di tutte le altre modalità.
In tabella sono riportati i Parametri di emissione per tonnellata chilometro (tkm) trasportata: considerato 100 l’emissione di CO2 dei vari vettori-tipo terrestri (camion) si riporta il corrispondente valore % della CO2 emessa dai vettori-tipo marini (navi)
Il differenziale di emissione a favore del vettore marino, per l’effetto di scala si attesta (considerando valori medi non ponderati dei camion e delle navi) su una riduzione delle emissioni di CO2tkm di 202,3 g per t/km che deriva dalla differenza tra l’emissione media dei camion di gCO2 t/km= 223,6 e l’ analoga emissione per le navi = 24,5.
Per l’obiettivo di ridurre del 30% le emissioni inquinanti complessive del comparto dei trasporti, il travaso dalla gomma al mare dovrebbe essere pari al 89,2%. Diversamente per conseguire l’obiettivo posto a livello europeo di ridurre del 30% l’uso del vettore su gomma, il travaso sul mare si attesta al 78,8%.
Il Capitolo IX del Rapporto Svimez 2021 al quale si rinvia, evidenzia l’insuccesso delle politiche dei trasporti che, a scala Ue, si consolida al 73% anziché ridursi nonostante i corposi sostegni finanziari per incentivare il trasporto merci sulle reti ferroviarie tedesche, francesi e olandesi per l’inoltro ferroviario da e verso i porti del Northern-Range di container provenienti da tutti i paesi europei del modello logistico Eurocentrico. Un modello che ha penalizzato molto l’ opzione Euromediterranea e la portualità dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo significativamente corroborata – da sottolineare – dalla persistente inerte acquiescenza del nostro Paese.
A spiegare – non a giustificare – la nostra, altrimenti, ottusa disattenzione, va detto che il modello Eurocentrico non solo lambisce, bensì coinvolge da anni il nostro Centro-Nord industriale più evoluto e tecnologicamente avanzato in solidi rapporti che lo inseriscono nelle “catene del valore” mitteleuropee – termine alla moda che nobilita la vecchia subfornitura di specialità. Una integrazione, subalterna, che ha soppiantato i distretti della mitizzata specializzazione flessibile.
In prospettiva l’esaurirsi della storica spinta tedesca verso Est, l’emergente Unione Africana, l’incentivo al re-shoring lanciano il ruolo del quasi oceano Mediterraneo, il progredire di una sua evoluzione da mare di transito a piazza centrale del mondo globale del dopo pandemia e -auspicabilmente – del dopo-guerra).
Il richiamo dell’Ue al grande malato d’Europa va perciò letto e colto in questa prospettiva; è un richiamo alla responsabilità di partecipare in modo attivo alle definizione del nuovo ordine globale. Opportunità all’orizzonte che attende la regia capace di condurla in porto.