I dubbi sul funzionamento del tetto al prezzo del petrolio imposto dall’Occidente sono stati diffusi urbi et orbi. Gli scettici si sono sbagliati di grosso. L’analisi di Timothy Ash (RBC/Chatham House) per Cepa
Dopo un lungo dibattito, a dicembre è stato introdotto un tetto al prezzo del petrolio a 60 dollari al barile, ben al di sotto dell’attuale prezzo di mercato del Brent, pari a circa 85 dollari. Unito alle più ampie sanzioni occidentali sulla Russia, e quelle sull’energia in particolare, il price cap ha reso difficile e impegnativo dal punto di vista della reputazione l’acquisto di petrolio ed energia russi da parte delle imprese internazionali.
Nella fattispecie, le complicazioni nel commercio del petrolio russo hanno portato all’applicazione di un forte sconto (30%-40%) al prodotto. Il tetto del prezzo del petrolio è stato fissato a 60 dollari, ma la miscela di petrolio degli Urali viene ora scambiata a un prezzo significativamente inferiore.
Il risultato netto di tutto ciò è che la Russia ha perso più della metà del volume fisico delle sue vendite di gas all’Europa, dove i prezzi sono tornati ai livelli precedenti a febbraio. Questo potrebbe potenzialmente far perdere alla Russia 50 miliardi di dollari di affari annuali nel 2023.
Per quanto riguarda il petrolio, se quello degli Urali continuerà a essere scambiato con uno sconto del 30%-40% rispetto al Brent – e anche se il Brent dovesse costare attorno ai 75 dollari al barile –, la Russia potrebbe vedersi sottrarre altri 100 miliardi dai proventi delle esportazioni di petrolio. Potenzialmente, dunque, quest’anno la perdita totale sarebbe di 150 miliardi di dollari.
In generale, la riduzione dei proventi delle esportazioni di energia rallenterà anche la crescita del Pil reale della Russia, producendo un doppio colpo sul lato fiscale, dato che anche le entrate tramite tasse sono diminuite.
Si pensa che il deficit di bilancio della Russia abbia raggiunto circa il 2,3% del Pil nel 2022. Ma con i prezzi del petrolio degli Urali ormai ben al di sotto dei 50 dollari al barile, il deficit, che ora sopporta anche il peso dell’aumento delle spese militari e sociali, potrebbe schizzare al 6-7% del Pil. Sebbene il Ministero delle finanze possa in qualche modo attenuare questo problema permettendo al rublo di indebolirsi, aumentando il valore in rubli dei proventi petroliferi in dollari, ciò aumenterebbe i rischi più ampi per la stabilità finanziaria macroeconomica e probabilmente accelererebbe la fuga di capitali.
Tutto ciò va a sottolineare l’errore di calcolo commesso da Vladimir Putin quando ha lanciato l’invasione su larga scala dell’Ucraina nel febbraio dello scorso anno. Un filone di pensiero del Cremlino era giunto alla conclusione che gli sforzi per accelerare la transizione energetica in Europa avrebbero ridotto la sua dipendenza energetica, riducendo così l’influenza della Russia sull’Ucraina. Ma l’ipotesi di Putin che si trattasse (almeno in parte) di una questione di “ora o mai più” era sbagliata.
In effetti, alla fine del 2021, l’Europa aveva quasi raggiunto la massima dipendenza dall’energia russa, in particolare dal gas, e da quel momento in poi avrebbe potuto solo diminuire. Il dilemma che Putin ha posto all’Europa è stato il seguente: al continente è stato chiesto se, dato il suo bisogno di gas per riscaldare le case e alimentare l’industria, fosse più importante mantenere questa fornitura relativamente economica e critica, o se si preoccupasse di più dell’Ucraina, un Paese per il quale aveva mostrato solo un tiepido entusiasmo.
Nei primi mesi dopo l’invasione totale, e mentre l’Europa si avviava verso l’inverno, molti elementi facevano pensare che il calcolo di Putin fosse ben calibrato. I prezzi del petrolio sono saliti di 20-25 dollari al barile nel periodo immediatamente successivo all’invasione, superando i 105 dollari al barile. Nel frattempo, i prezzi del gas sono saliti alle stelle, aumentando in alcuni casi di oltre 20 volte (alla fine dell’estate), mentre i mercati si preoccupavano dei livelli di stoccaggio del gas in Europa e della capacità del continente di sopravvivere all’inverno con forniture russe molto ridotte. Si parlava di malcontento popolare, razionamento dell’energia, interruzioni delle forniture e un colpo potenzialmente catastrofico alla crescita e all’attività economica europea.
Le sanzioni occidentali che limitano gli acquisti occidentali di petrolio ed energia russa sono state viste come controproducenti, perché avrebbero fatto il gioco della Russia e aumentato i prezzi, rafforzando perversamente i flussi di entrate del Cremlino. A novembre, le entrate petrolifere russe erano aumentate di circa un terzo rispetto all’anno precedente, portando i funzionari del governo russo a prevedere con fiducia che il deficit di bilancio dell’intero anno sarebbe migliorato rispetto all’obiettivo dell’1,2% del Pil. I dati della bilancia dei pagamenti sono stati altrettanto incoraggianti per la Russia, con la Banca centrale che ha riferito che l’avanzo delle partite correnti è salito a 226 miliardi di dollari per i primi 11 mesi del 2022, più del doppio rispetto all’avanzo di 108 miliardi di dollari dell’anno precedente.
Insomma, Putin sembrava avere tutte le carte in regola e molti suggerivano che l’Europa avrebbe ceduto. Cosa ha sbagliato?
Innanzitutto, l’aumento dei prezzi ha prodotto un’impressionante risposta sul lato della domanda. Il consumo di gas in Germania è crollato di circa un quarto. In secondo luogo, finora l’inverno dell’Europa occidentale è stato relativamente mite – ironia della sorte, si sta rivelando rigido proprio in Russia. Terzo, la solidarietà occidentale ha retto e l’Europa è riuscita a reperire fonti energetiche alternative, in particolare le importazioni di gas naturale liquefatto (gnl) dal Nord Africa, dagli Stati Uniti e dal Medio Oriente. Grazie a questi fattori, i livelli di stoccaggio di gas in Europa si sono mantenuti su livelli stagionali elevati e la domanda di energia russa è diminuita. Quarto, dopo un lungo dibattito tra gli alleati occidentali, è stato raggiunto un accordo sul prezzo massimo del barile di 60 dollari. Quinto, la guerra in Ucraina ha avuto un impatto negativo sulla crescita globale e con essa sulla domanda di materie prime, in particolare di petrolio ed energia.
In conclusione, con la sua guerra in Ucraina Putin sembra aver finalmente cucinato la gallina dalle uova d’oro della Russia. L’Europa accelererà la sua transizione energetica e la sua diversificazione dal Paese, riducendo così la domanda di energia russa. Ma la guerra ha colpito la domanda e i prezzi globali, che aggraveranno le perdite di volume per la Russia con un effetto sui prezzi. Il risultato complessivo sarà un colpo dannoso per la stabilità macroeconomica russa, accelerando il malessere e il declino economico a lungo termine del Paese.
Timothy Ash è Senior Emerging Markets Sovereign Strategist presso RBC BlueBay Asset Management. È Associate Fellow di Chatham House nel programma Russia ed Eurasia.
L’articolo originale è apparso sul sito del Center of European Policy Analysis. Le opinioni contenute in questo articolo sono quelle dell’autore.