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Produttività e risparmio per rilanciare l’economia. Scrive Pedrizzi

Su cosa puntare per far crescere il Paese e fronteggiare le emergenze del futuro prossimo? Alcune soluzioni possibili, a partire da una riflessione dell’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. L’intervento di Riccardo Pedrizzi

Secondo le “Proiezioni macroeconomiche per l’economia italiana” della Banca d’Italia il Prodotto interno lordo dovrebbe ridursi di circa l’1% sia per il 2023 sia per il 2024 e rimanere stagnante per il successivo; l’inflazione salirebbe ancora, raggiungendo l’11% nel 2023 per poi iniziare a scendere progressivamente per arrivare al 2% nel 2025. Con queste prospettive la situazione sociale peggiorerà notevolmente, infatti, la spinta inflattiva rischia di portare da 2 a 2,3 milioni il numero di famiglie in povertà assoluta (il numero più alto dall’inizio della rilevazione Istat nel 2005), per un totale di 6,4 milioni di persone.

Gli impatti saranno particolarmente gravi per le famiglie già più vulnerabili, che destinano a spese essenziali (alimentari, affitti, acqua, luce e gas, salute) il 76% del proprio reddito (vs. 56% per le famiglie a più alto reddito): per le famiglie meno abbienti il reddito disponibile per le spese out-of-pocket (non necessarie alla sussistenza) è già stato più che decimato dall’inflazione, riducendosi del 20,7% (cfr. il Rapporto del Think Tank “Welfare, Italia” supportata da Unipol Gruppo con la collaborazione di The European House – Ambrosetti, e con il sostegno di un comitato scientifico).

Alla luce di questa prospettiva, i consumi delle famiglie, dopo una crescita sostenuta nei trimestri centrali del 2022, diminuirebbero alla fine dell’anno 2022 e nei primi mesi di quest’anno. La propensione al risparmio si ridurrebbe, scendendo sotto alla media pre-pandemia nel 2023.

Per quanto riguarda poi il prodotto nel complesso si valuta che i rischi per la crescita siano orientati prevalentemente al ribasso. In uno scenario avverso, si valutano in particolare le conseguenze per l’economia italiana di un’eventuale interruzione permanente dei flussi di materie prime energetiche dalla Russia.

Per poter affrontare queste emergenze occorrerebbe puntare perciò, da un lato, sull’incremento della nostra produttività, dall’altro, sulla “mobilitazione” delle nostre enormi riserve di risparmio inutilizzato e giacente per 1800 miliardi in depositi e conti correnti presso le nostre banche.

Dal lato della produttività bisogna tenere conto che secondo l’Istat le retribuzioni nette dei lavoratori sono diminuite negli ultimi 10 anni del 10%. A fronte di questa flessione in questi ultimi vent’anni di inizio secolo, sino allo scoppio della pandemia, la produttività della Germania, a parità di costo del lavoro, è aumentata in media tra l’1 e il 2 per cento l’anno, in Italia tra il l’1 e il 2 per cento, ma in tutto il periodo. La produttività del lavoro cresceva di 1,2 per cento per anno tra il 1997 e il 2001; dello 0,6 per cento annuo tra il 2004 ed il 2007; e appena di un decimo di punto percentuale negli anni dal 2015 al 2019.

La variazione media annua della produttività del lavoro in tutto il periodo tra il 1996 ed il 2019 è stata dello 0,3 per cento in Italia, a fronte di un più 0,7 per cento annuale in Germania ed uno 0,8 in Francia e Spagna. Se consideriamo il primo ventennio di questo secolo, il confronto è ancora impietoso: la produttività del lavoro è aumentata dello 0,2 per cento in media annua da noi, dello 0,6 in Germania, dello 0,7 in Francia e di un punto percentuale all’anno in Spagna. Ed allora c’è da chiedersi come una dinamica virtuosa dei salari reali si possa realizzare, promuovendo sia il potere d’acquisto sia la competitività delle imprese, senza innescare una rincorsa inflazionistica. Si dovrebbe perciò provvedere con coraggio ad un taglio consistente del cuneo contributivo, come richiesto sia da sindacati che dalle associazioni datoriali, che avrebbe aumentato sia il potere d’acquisto dei salari sia la competitività delle imprese.

“Le analisi dell’occupazione e dell’andamento dei salari, dunque, non può essere isolato dal tema della produttività, scriveva Antonio Fazio in un saggio/intervista di qualche tempo fa, nel quale sosteneva la tesi secondo la quale: “Un livello salariale significativamente più basso di quello attuale, soprattutto per il Mezzogiorno, ma più alto di quello dei lavoratori del ‘lavoro grigio’ – mi piace raccogliere la sollecitazione di Baffi a non usare la locuzione “lavoro nero” perché il lavoro ha sempre una sua dignità – renderebbe le imprese più competitive ed eliminerebbe, almeno in buona parte, il lavoro irregolare, proponendo di “coinvolgere i lavoratori nella gestione dell’azienda, è una di queste strade. Una scelta che, tra l’altro, produrrebbe maggiore e più stabile occupazione. Del resto lo avevano già capito i Costituenti quando hanno scritto l’Articolo 46 della nostra Carta – fondata sul lavoro e non sull’euro – riconoscendo che “ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto – si badi bene: il diritto, non la facoltà – dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.

Queste scelte possono risultare impopolari, ma sono utili e necessarie.

Pertanto per quanto sia un segnale importante, non basterà l’incentivo previsto dalla legge di bilancio da poco approvata, che prevede che solo nel prossimo anno per i premi e le somme erogate nel 2023 l’aliquota dell’imposta sostitutiva sui premi di produttività è ridotta al 5 per cento dal 10 attuale. La norma riguarda i premi di risultato di ammontare variabile e le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa, entro un limite annuo di tremila euro. Si tratta di uno strumento in grado di incrementare le buste paga dei lavoratori, ma che riguarda ancora una minoranza degli occupati, in quanto i lavoratori beneficiari di premi di produttività sono 3.775.278 (il 16,3% degli occupati). La riduzione dell’aliquota sui premi di produttività è, in verità, un primo passo che però coglie solo in parte le richieste del mondo del lavoro. Secondo i sindacati, infatti, l’intervento avrebbe dovuto essere quello di un azzeramento totale della tassazione. In questo modo sarebbe stato centrato un duplice obiettivo: dare valore alla produttività e incrementare la platea.

Dal lato del risparmio accumulato e non utilizzato dalla e nella economia reale, si potrebbe far riferimento alla proposta avanzata da Luigi Sbarra e Riccardo Colombani nel loro articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 12/12/2022. Anche i Segretari Generali della Cisl e della First-Cisl partono dalla premessa che l’Italia è l’unico Paese dell’Unione europea, insieme alla Grecia, che non ha ancora recuperato il livello di Pil del 2008; che i salari reali sono addirittura calati rispetto al 1990; che i nostri concittadini in condizioni di povertà assoluta sono oltre 5 milioni e mezzo e che le minacce così gravi che sono all’orizzonte impongono risposte che vadano oltre una logica emergenziale per guardare al futuro. I due esponenti sindacali ritengono che per rimettere in moto la crescita ci sia bisogno, accanto agli investimenti pubblici, di una massiccia iniezione di investimenti privati. “La nostra proposta è di costituire un Fondo di investimento nell’economia reale alimentato dal risparmio degli italiani, tutelato da una garanzia statale integrale”. È quanto andiamo sostenendo anche noi del Cts dell’Ucid da tanto tempo, per finanziare prima di tutto la transizione ecologica delle Pmi e per promuovere la creazione di start-up pienamente sostenibili nelle aree più svantaggiate del Paese, come le regioni del Sud.

E qui la soluzione si sposa con il ragionamento e la proposta del governatore emerito Antonio Fazio.

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