Non si può non guardare con una certa preoccupazione alla recente proposta di riforma del Patto di stabilità presentata dalla Commissione europea. La proposta costituisce un sostanziale miglioramento rispetto all’esistente, ma non sembra garantire la creazione di uno “spazio fiscale” per i Paesi membri dell’Ue
Come preannunciato su questa testata il 12 novembre scorso, sono iniziate discussioni sulle linee-guida della Commissione europea per la riforma del Patto di Crescita e di Stabilità. Le linee-guida confermano nei fatti le indicazioni circolate in queste settimane a Bruxelles. L’obiettivo dell’esecutivo comunitario è di rendere il Patto più facile da rispettare e da far rispettare, dopo che per anni molte delle sue regole sono state platealmente ignorate (a cominciare dalla regola di una riduzione di un ventesimo all’anno del debito in eccesso).
Il “Patto” originario fissa – come è noto – un rapporto debito/Pil massimo pari al 60% del Pil e un rapporto disavanzo massimo pari al 3% del Pil. Se il livello di indebitamento viene superato, 1/20 della differenza tra valore effettivo e valore target deve essere ridotto annualmente. Se i criteri non sono soddisfatti, sono dovute sanzioni fino a ½% del Pil. Dalla conclusione del Patto nel 1993, esso è stato più volte modificato, provvisto di clausole di eccezione e meccanismi di controllo ed è quindi considerato inefficace, confuso, complicato e poco trasparente.
Al di là del desiderio di rendere le norme più trasparenti e più facili da rispettare, viene confermata la possibilità di condizionare l’esborso dei fondi europei, anche di quelli provenienti dal Next Generation Eu, al rispetto delle regole di bilancio. In estrema sintesi, Bruxelles propone di organizzare il rapporto con gli Stati membri nel modo seguente. La Commissione europea presenterà per ogni Stato membro un percorso di aggiustamento del debito su un periodo di quattro anni. In risposta alla proposta comunitaria il singolo Stato metterà sul tavolo il proprio percorso di aggiustamento, tenendo conto delle sue priorità economiche, riforme e investimenti. Nei due casi, il metro di riferimento deve essere la spesa netta primaria. La Commissione europea sarebbe poi chiamata ad approvare il piano nazionale, dopo un prevedibile negoziato. L’importante, spiega Bruxelles, è che “il percorso del debito rimanga discendente o si mantenga su livelli prudenti, e che il deficit di bilancio rimanga al di sotto del 3% del Pil nel medio termine”. Non c’è proposta per i Paesi con un forte e crescente surplus dei conti con l’estero; quindi, l’attuale asimmetria viene mantenuta.
Tutti gli Stati membri, sia quelli ad alto debito che quelli a basso debito, potranno chiedere di allungare da quattro a sette anni il percorso di aggiustamento, se giustificato da riforme e investimenti. La possibilità di allungare il percorso per l’aggiustamento indurrà gli Stati maggiormente indebitati a chiedere rinvii dopo rinvii.
Al tempo stesso, la Commissione propone di aumentare il proprio ruolo alla grande: spetterebbe a lei redigere la prima stesura dei programmi di riassetto strutturale dei vari Stati membri e le pertinenti riduzioni del debito, programmi che diventerebbero “vincolanti” dopo un negoziato tra il singolo Stato con l’esecutivo comunitario; spetterebbe a lei pronunciare “avvertimenti” ed anche comminare “sanzioni”. È auspicabile e possibile fare questo profondo cambiamento nell’assetto istituzionale dell’Unione europea? Ha la Commissione gli strumenti e la capacità di fare le analisi richieste per definire quali Stati devono essere classificati “a alto” o “a basso rischio” ed ad emettere giudizi sulla “sostenibilità del debito? Ho seri dubbi e perplessità anche a ragione di errori tecnici nel documento della Commissione, quale l’utilizzazione come sinonimi dei termini “rischio” ed “incertezza”. Le implicazione per l’Italia potrebbero essere serie. L’Italia (con la Grecia) potrebbe essere classificata come il solo (o uno dei due) Stati “ad alto rischio” dell’Unione europea (Ue). Questo “stigma” avrebbe un effetto immediato sullo spread che verrebbe attribuito al governo pro-tempore in carica non ad eventuali errori di valutazione dei funzionari della Commissione europea.
Non ci si mette su una strada recessionista proprio in una fase in cui – come sottolinea il saggio Il ritorno della politica di bilancio e il rilancio degli investimenti pubblici di Floriana Cerniglia, Francesco Saraceno nell’ultimo numero de La Rivista di Politica Economica – la crisi finanziaria globale ha provocato un processo di ripensamento (Rethinking Macroeconomics)? Oggi, la politica di bilancio sembra imprescindibile sia per la stabilizzazione macroeconomica di breve periodo sia per la politica industriale e per la fornitura di beni pubblici nel lungo periodo. Il ruolo dell’investimento pubblico, sacrificato per decenni in tutti i Paesi Ocse, è centrale sia nel processo di ripensamento teorico sia nei piani di ripresa dopo la pandemia.
In questo contesto, non si può non guardare con una certa preoccupazione alla recente proposta di riforma del Patto di Stabilità presentata dalla Commissione europea. La proposta costituisce un sostanziale miglioramento rispetto all’esistente, ma non sembra garantire la creazione di uno “spazio fiscale” per i Paesi membri dell’Ue. Per far fronte alle sfide del futuro, dall’autonomia strategica all’investimento per le transizioni ecologica e digitale, occorrerà aprire quanto prima il cantiere della creazione di una capacità fiscale europea.
Occhio!