Sul piano finanziario la scelta di non procedere alla fiscalizzazione degli aumenti delle accise è, in linea di massima, del tutto equivalente a quella dello scostamento di bilancio. Entrambe le soluzioni contribuiscono, infatti, a sospingere verso l’alto il tasso d’inflazione. Ecco perché… L’analisi di Gianfranco Polillo
Anni ed anni di governo non sono serviti alle attuali opposizioni per moderare il tono della loro protesta. Comprensibile la posizione dei 5 Stelle alle prese con una transizione infinita dagli incerti risultati e dagli sbocchi ancora più indeterminati. Ma dal Pd era da aspettarsi un tono meno tranchant.
Soprattutto una riflessione più attenta sulle difficili condizioni che il Paese sta vivendo, in un contesto internazionale segnato da incertezze diffuse e da controspinte insondabili. Basti pensare ai dubbi che stanno accompagnando la politica della Bce, pure alle prese con un’inflazione che, in qualche modo, deve essere contrastata. Ed invece: tutto archiviato. Il richiamo della foresta è prevalso su ogni invito alla prudenza.
E il risultato è stato la richiesta perentoria, rivolta al Governo, di procedere alla fiscalizzazione delle accise su benzina e gasolio per evitare di colpire gli automobilisti e contenere (tutto da dimostrare) le ulteriori pressioni inflazionistiche. Che tassare non sia la cosa più bella del mondo, non si può che essere d’accordo. Sebbene in passato vi fu chi, come Tommaso Padoa Schioppa, allora ministro dell’Economia del governo Prodi, la pensasse in modo completamente diverso.
Ma nel caso in specie, i ragionamenti devono essere più sofisticati. Si parta, allora, dalla genesi del fenomeno. Il precedente governo, presieduto da Mario Draghi, aveva provveduto a fiscalizzare una parte delle accise, al fine di evitare di pesare eccessivamente sulle tasche dei consumatori. Si era, comunque, trattato di un provvedimento a tempo. Alla relativa scadenza, come puntualmente si è verificato, avrebbe dovuto provvedere il nuovo governo.
Due le motivazioni di questo modo di procedere: la mancanza di risorse da destinare ad una sterilizzazione permanete di almeno parte delle accise gravanti sui prodotti petroliferi, il non voler condizionare più di tanto le scelte del futuro governo. Tanto più che quest’ultimo, dopo anni ed anni di congelamento, si apprestava ad essere espressione diretta del voto polare. Spettava, pertanto, a questo nuovo soggetto decidere su come intervenire, avendo come punto di riferimento una legge di bilancio, che il Parlamento avrebbe appena votato, ed il nuovo inventario delle risorse disponibili.
Con la manovra di fine anno, il nuovo governo si era già assunto l’onere di aumentare di 1,1 punti di Pil il deficit di bilancio, portandolo 3,4 per cento (tendenziale dello scorso novembre) al 4,5 per cento. Scelta non certo fatta a cuor leggero. La Bce, infatti, stava procedendo spedita lungo la via del rialzo dei tassi di interesse. Aumentati, nello spazio di qualche mese, da meno 0,5 per cento a più 2,5. Con l’idea di procedere ulteriormente con rincari pari a 50 punti base, nelle prossime riunione del board. Fino a giungere, secondo i rumors dei principali analisti, ad un tetto del 5 per cento da toccare prima dell’estate.
Prospettiva, indubbiamente, inquietante per un Paese che ha ancora il secondo debito pubblico più alto dell’Unione europea. Tuttavia correre quel rischio era stato valutato necessario proprio al fine di destinare la maggior parte delle risorse derivanti dallo scostamento di bilancio a favore di imprese e famiglie, per combattere gli effetti perversi del caro energia. Sennonché, nonostante questi buoni propositi, la carenza di risorse a propria disposizione, rispetto alla magnitudine dei problemi da affrontare, aveva costretto il governo a limitare questo ristoro solo ai primi tre mesi dell’anno in corso. Creando un’incognita che si sarebbe ripresentata alla fine di quest’inverno.
Al di là delle inevitabili polemiche che, ogni volta, hanno accompagnato la legge di Bilancio, è difficile non riconoscere il valore intrinseco di quella strategia. Dagli inizi dell’anno, quando gli spread sui decennali italiani avevano raggiunto i 214,8 punti base, gli ultimi valori sono scesi a 186,7. Con una caduta del 13 per cento nello spazio di una decina di giorni. Segno evidente che i mercati avevano apprezzato la manovra, promuovendo, di fatto, l’azione del Governo. Si poteva contraddire tutto questo, procedendo ad un nuovo scostamento per un valore pari ad una decina di miliardi, quindi un altro mezzo punto di Pil, smdentendo, a distanza di poco più di una settimana, il voto del Parlamento?
Fin qui le ragioni di opportunità, ma dal punto di vista economico e sociale?
Il discorso, in questo caso, diventa solo leggermente più complesso. Sul piano finanziario la scelta di non procedere alla fiscalizzazione degli aumenti delle accise è, in linea di massima, del tutto equivalente a quella dello scostamento di bilancio. Entrambe le soluzioni contribuiscono, infatti, a sospingere verso l’alto il tasso d’inflazione. Nel primo caso incidendo direttamente sui costi di produzione. Compreso quello della “riproduzione della forza lavoro”, secondo il dettato degli economisti classici, di competenza delle famiglie. Nel secondo caso, indirettamente, grazie alla maggiore liquidità immessa nel sistema.
Dovuta all’emissione di titoli pubblici necessari per far fronte al maggior deficit. Nonostante l’equivalenza finanziaria, tuttavia, le differenze dal punto di vista dell’economia reale risultano tutt’altro che trascurabili. Nel primo caso, infatti, (mancata fiscalizzazione) l’aumento dei prezzi di vendita dei prodotti petroliferi contribuirà ad un loro minor consumo. Imprese e famiglie cercheranno soluzioni alternative per limitare i costi: maggior utilizzo dei mezzi pubblici, razionalizzazione degli spostamenti, utilizzo di mezzi meno energivori, e via dicendo. Nel secondo caso, visto che paga Pantalone, gli effetti indotti saranno quasi nulli. A livello di massa, le abitudini sarebbero rimaste identiche: come se nulla fosse accaduto. Ma con quali conseguenze?
Lo scorso ottobre, la bilancia commerciale italiana presentava un deficit, cumulato nei dodici mesi precedenti, pari a 13.476 milioni. Nello stesso periodo del 2021 il surplus era stato invece pari a 65.904 milioni. Il peggioramento complessivo sfiorava quindi gli 80 miliardi. In larga misura dovuto all’aumento dei prezzi degli energetici: soprattutto gas e petrolio. La dimensione di quanto grave sia la crisi energetica, con le relative conseguenze macroeconomiche che può determinare sull’intera economia italiana.
Quel deficit commerciale, se non contenuto con opportune misure tese a ridurre i consumi dei beni più importati, può essere un colpo al cuore e risvegliare gli animi dei grandi speculatori, come avvenne nel 2011. Ancora la situazione è tranquilla. Ma qualche segnale invita alla prudenza. Nel secondo semestre del 2022 (ultimo dato disponibile) il credito nei confronti dell’estero è diminuito di circa 21 miliardi. Esiste ancora un presidio che, a giugno dello scorso anno, era ancora superiore ai 100 miliardi. Ma tutto ciò non induce a dormire sugli allori, come del resto non fanno gli altri Paesi europei: Germania in testa. Ed allora, piano con la demagogia: può essere un’arma a doppio taglio destinata a ritorcersi contro apprendisti stregoni fin troppo disattenti.