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Un’altra stretta della Bce non sarebbe la benvenuta. La versione di Polillo

I tassi di riferimento, a livello europeo, sono pari al 2,5 per cento. Di gran lunga inferiori ai tassi di inflazione. Che lo scorso novembre era pari al 10,1 per cento, in leggera decelerazione rispetto al mese precedente. Ne consegue che i tassi d’interesse reali risultano essere negativi. Situazione decisamente favorevole per chi è interessato ad investire. I rendimenti futuri, con ogni probabilità, saranno, infatti, maggiori dei costi oggi sostenuti

É un Patuelli d’annata quello che sorride dalle pagine de Il Messaggero, nella sua lunga intervista sulle prospettive della politica monetaria e, più in generale, sullo stato di salute del sistema bancario italiano. Rigore tecnico ed un pizzico di coraggio. Di chi non subisce il fascino più o meno discreto di Francoforte. Ma ha una posizione netta: “La Bce deve ripensare la corsa al rialzo dei tassi, altrimenti sarà recessione”. Qualcosa di simile era stata detta da esponenti del governo. Soprattutto da Guido Crosetto, ma in questo caso si poteva pensare ad una semplice petizione di principio, non avallata da chi ha il compito, sempre secondo il Messaggero, di guidare i banchieri italiani.

Attualmente i tassi di riferimento, a livello europeo, sono pari al 2,5 per cento. Di gran lunga inferiori ai tassi di inflazione. Che lo scorso novembre, ultimo dato disponibile, secondo Eurostat, era pari al 10,1 per cento, in leggera decelerazione (10,6 per cento) rispetto al mese precedente. Ne consegue che i tassi d’interesse reali, vale a dire al netto dell’inflazione, risultano essere negativi. Situazione decisamente favorevole per chi è interessato ad investire. I rendimenti futuri, con ogni probabilità, saranno, infatti, maggiori dei costi oggi sostenuti.

Finora, quindi, le decisioni della Bce non sono state particolarmente penalizzanti. Potrebbero, invece, esserle nell’immediato futuro se il rialzo dei tassi dovesse continuare ad aumentare, al ritmo di 50 punti base a botta. L’equilibrio realizzato ha consentito, infatti, all’euro di recuperare nei confronti del dollaro. Lo scorso dicembre era stato quotato al di sotto della parità, attualmente il rapporto è di 1,05 dollari per 1 euro. Cambiamento che, seppure in misura contenuta, ha contribuito a contrastare il caro energia: considerato che quei prodotti – petrolio, gas, gpl – sono quotati in dollari.

Una controindicazione potrebbe venire dalla politica seguita dalla Fed americana. Il rapporto di relativa interdipendenza tra le diverse banche centrali è regola aulica, suffragata da una lunga esperienza. Agli inizi degli anni ‘80, solo per ricordare un singolo episodio, fu la svolta voluta da Paul Volcker, allora presidente della Fed, a determinare quella stretta deflazionistica che da Wall Street si diffuse nei cinque continenti. Ancora oggi quei rapporti pesano, ma i legami non sono più così stretti.

A dimostrazione di quanto detto, basta ricordare il diverso comportamento della Banca centrale giapponese: la Boj. Che non ha voluto seguire la Fed, nel far virar verso l’alto la struttura dei propri tassi d’interesse, essendo più che preoccupata di non frenare quella crescita che, per un Paese, che ha il più alto debito del Mondo, è elemento vitale. L’unica concessione è stata quella enunciata lo scorso novembre. Permetterà ai titoli con rendimenti a 10 anni di oscillare tra ±0,5%, modificando la precedente banda di oscillazione di ± 0,25%. In compenso i tassi d’interesse overnight saranno mantenuti al livello di -0,1%. E poco importa se, a seguito di queste indicazioni, lo yen abbia ceduto terreno nei confronti del dollaro, costringendo la Banca stessa ad intervenire sul mercato dei cambi.

Quali le giustificazioni di queste evidenti asimmetrie? La diversa natura dell’inflazione, che negli Stati Uniti è soprattutto da “domanda”, mentre negli altri mercati – Europa e Giappone – è soprattutto da “costi”. All’origine del fenomeno proprio le differenti dotazioni di “oro nero”. Gli Stati Uniti che, in passato, erano i principali importatori di petrolio, grazie alle nuove tecniche della produzione di oil shale, sono diventati esportatori netti. L’attuale congiuntura economica, ma soprattutto politica, che ha portato alle stelle i prezzi relativi, li ha pertanto decisamente favoriti.

Un evidente paradosso, rispetto alle continue accuse da parte di Putin, che invece ha lavorato attivamente per le grandi compagnie americane. E non solo. Il vantaggio di un’energia a prezzi più competitivi, rispetto agli altri Paesi; condizioni finanziarie ancora favorevoli (tassi interesse al 4,5 per cento ed inflazione al 7,1) ed una domanda interna che tira, essendo il livello di disoccupazione pari solo al 3,5 per cento della forza lavoro, hanno determinato le condizioni tipiche per lo sviluppo della rincorsa “prezzi – salari”. Costringendo la Fed ad intervenire, nel tentativo di bloccarne la spirale.

In Europa ed in Giappone la realtà è completamente diversa. Sono i maggiori costi nelle materie prime, soprattutto energetiche, a riflettersi sui prezzi di vendita. Nello stesso tempo i maggiori esborsi per le importazioni determinano un drenaggio di risorse a favore dell’estero, contribuendo a ridurre la domanda interna. Se a questi fattori destabilizzanti dovesse sommarsi una politica monetaria particolarmente aggressiva, sarebbe come far piovere sul bagnato. Con effetti immediati non solo sul quadro macroeconomico, ma sugli stessi assetti di finanza pubblica, la cui precarietà è fin troppo evidente. Quindi, attenzione a non tirare troppo il freno a mano. In una strada piena di curve, un uso disinvolto del dérapage può far cappottare.

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