1943, siamo nel buio di una guerra mondiale peggiore della prima. Hollywood decide di portare sullo schermo una storia di fede e ottimismo: il romanzo “The song of Bernadette”, di Franz Werfel (un amico di Franz Kafka). Un’ineccepibile sceneggiatura e regia (Henry King) fa conoscere al pubblico mondiale l’adolescente Bernadette: povera, analfabeta, ma dal carattere gentile e forte. Un film che ancora oggi ci commuove
Franz Werfel, ebreo austriaco, poeta e scrittore sin dagli anni Dieci del secolo scorso, amico di Franz Kafka, Max Brod, Martin Büber, nel 1938, al momento dell’Anschluss nazista, si trova in Italia e deve riparare in Francia; di lì poi emigrerà in America. Per ottemperare a un voto, quello di esser scampato alla deportazione, scriverà The Song of Bernadette (1941). Una storia delle apparizioni di Lourdes.
Quel romanzo pochi lo hanno letto, ma milioni di persone hanno visto la splendida versione cinematografica del 1943, a firma di un regista che sapeva dove mettere la macchina da presa e come far sì che un attore cambiasse espressione del viso all’interno di una stessa scena: Henry King.
Ecco l’incipit: un poverissimo interno, un monolocale. Una famiglia dorme su dei letti rimediati con addosso semplici piumoni rappezzati. In un letto due ragazze. Al lato destro, un lettino ospita due fratellini. A sinistra, il letto matrimoniale con i coniugi Soubirous. Col procedere del racconto sapremo che il posto è una umidissima e gelida ex prigione arrangiata a “casa”. Primo tocco di King: la flebile luce che filtra tra le inferriate dell’unica finestrella traccia, con due linee d’ombra, una grande croce sul letto dove dormono le due figlie: Bernadette e Marie. Un segno prolettico che lo spettatore coglie solo ad una visione successiva.
The song of Bernadette (1943) è forse il più popolare film dedicato a una veggente, alla Vergine Maria, e al dogma della Immacolata Concezione. Amato da milioni di spettatori. Un racconto che lega tre “specifici” filmici: una accurata sinfonia di attori (dai protagonisti alle figure di secondo piano: il procuratore; il sindaco; il dottor Dozous; il commissario Jacomet; la coraggiosa zia di Bernadette; la sorella Maria; i vicini miracolati; Antoine, il ragazzo segretamente innamorato di Bernadette; la acida e invidiosa suor Vazous, ecc.); una sceneggiatura con delicati e inattesi guizzi diegetici; infine, un uso sperimentale della camera (quante riprese, negli interni, sono a 45° dal basso verso l’alto, come aveva insegnato due anni prima Orson Welles in Citizen Kane!).
E poi, ciò che rende il film di King un capolavoro (ma non per i tiepidi: lo hanno sempre snobbato), è la magnifica interpretazione di Jennifer Jones (al tempo 24enne) nei panni della 14enne Bernadette Soubirous. Una catturante recitazione, rafforzata dai toni pacati e musicali della voce di Lydia Simoneschi, rendeva la fede e il soprannaturale semplicemente vero: scuoteva (e lo fa ad ogni visione, dopo ottant’anni) la nostra anima. In Italia fu il film che incassò di più nella stagione 1947-48, superando il cinema neorealista che scuoteva, anch’esso, meritatamente, la nostra coscienza civile.
La sceneggiatura dell’esperto George Seaton (cinque anni dopo vincerà l’Oscar per la sceneggiatura di Il miracolo sulla 34ma strada, 1947, da lui diretto), pur seguendo nel plot il romanzo di Werfel, rende il racconto filmico non prevedibile grazie a delle ellissi, a dei passaggi rapidi tra scena e scena, a dialoghi brevi: da cinema postmoderno in anticipo. Prendete la quinta scena. Dopo la prima apparizione della Vergine alla ragazza, e l’improvvisa buona cena in casa grazie ai doni dei vicini, ecco una scena movimentata, inattesa. Assistiamo alla forsennata corsa di Marie, sul ponticello di Lourdes, verso casa. Entra trafelata in casa: riesce appena a dire a sua madre che «Bernadette è quasi morta. È da Madame Nicalau». Corsa della madre. Solo dopo sapremo che la ragazza era stata alla grotta per la seconda volta, ma la scena non ci è stata mostrata.
Il film di King è colmo di finezze registiche. Prendete il doppio interrogatorio del procuratore imperiale Dutour (un superbo Vincent Price) e del commissario Jacomet (il giustamente burbero Charles Dingel), tenute in due uffici comunicanti, dai quali ognuno sorride ascoltando il vano interrogatorio dell’altro, e pensando di fare meglio. Aggiungete che i due attori, nella versione italiana, sono serviti dalle coinvolgenti voci di Emilio Cigoli e Mario Ferrari. Bernadette affronta le false accuse dei due inquirenti rispondendo con placida calma e una chiara logica, facendo cadere in contradizione i due inquisitori.
Oppure, quando tutti gli uomini potenti di Lourdes sono riuniti al caffè del paese e, soddisfatto, il prolisso sindaco Lacade (bravo Aubry Mather: col giusto tono tronfio di Mario Besesti) legge il giornale, a voce alta, che riporta la notizia come il «caso Lourdes» sia chiuso. Nessuno vede la Vergine, tranne una ignorante ragazzina alla quale i genitori le hanno vietato, su richiesta delle autorità, di smetterla di recarsi a Massabielle. Tutti ridacchiano soddisfatti. Il procuratore sentenzia: «Io vedo molto più lontano di voi, soprattutto seduto in questa posizione». Allude a una piccola folla che pare vada alla grotta, ma subito dopo il gendarme, entrando trafelato e allarmato, informa: «Ci sono stati all’alba, a Massabielle! Ora vanno dal parroco!». Anche qui King racconta qualcosa che non ci ha fatto vedere.
Il parroco Peyramal (prima rigido, poi fiero credente delle apparizioni: simboleggia la Chiesa che attende e non tentenna: la migliore prova di Charles Bickford, con i toni ora severi, ora consolanti di Gaetano Verna), inizialmente intimidisce Bernadette, smontando la sua presunta visione di una «signora». La ragazza, però, sempre educata e con estremo garbo, aggiunge che «la Signora vuole che si costruisca una cappella; e si facciano processioni». Egli risponde, un po’ stizzito, che il parroco (ossia lui) vuole un segno. «Che fiorisca il rosaio selvatico che è presso la grotta». Siamo a febbraio. Tutta la scena gode di una regia mobile tra esterno (il giardino) e interno (il soggiorno della casa del curato), con l’uomo e la ragazza che si muovono come su una scacchiera: a distanza, con frasi che sono colpi di fioretto. Il parroco colpisce astutamente ma la ragazza para i colpi con candide, disarmanti risposte. Gli sguardi e il movimento dei corpi, di Jennifer Jones e Charles Bickford, sono autentico manuale di recitazione.
Ancora. Nella scena in cui tutti si aspettano che fioriscano le rose come ha chiesto il curato Peyramal, ma queste non fioriranno, e la folla accorsa se ne va delusa, alcuni irridendo la ragazza e i suoi famigliari, ecco che improvvisamente, dietro le spalle di Antoine, seduto e sconsolato in terra, davanti alla grotta, cola lentamente un rigolo di acqua: è sgorgata la fonte.
Lo spettatore non dimentica neanche l’equilibrata figura del medico Pierre-Romain Dozous (il bravo Lee J. Cobb, con il caldo e pausato tono di Giorgio Capecchi), forse colui in cui si identificava l’ebreo Franz Werfel, ossia lo scienziato che dispone il cuore e la mente ad accogliere il soprannaturale, il miracolo, senza rinnegare la scienza.
Jennifer Jones, eccellente attrice dalla carriera fulminante (anche grazie al matrimonio, in seconde nozze, con David O. Selznick, probabilmente il più grande produttore hollywoodiano di sempre: colui a cui si devono immensi film, quali Via col vento, 1939), si farà poi apprezzare in altre prove attoriali. Nei panni di una ragazza umile, Cluny Brown (Tra le tue braccia, 1946, dal delizioso romanzo di Margery Sharp del 1944), nei quali si improvvisa idraulica, nella Londra aristocratica degli anni Trenta, in un gioiellino da sophisticated comedy, accanto a Charles Boyer, prodotto e diretto da Ernst Lubitsch (l’unico bacio arriva solo alla fine del film, davanti ad una seria promessa di matrimonio). Il pubblico la ritroverà in una tormentata storia d’amore nel western Duel in the Sun (Duello al sole, 1946, Henry King). Successivamente, sarà la volta di un’impossibile storia d’amore tra una dottoressa asiatica e un giornalista americano, di forte impatto popolare: Love is a Many Splendored Thing (L’amore è una cosa meravigliosa, 1955, Henry King: «polpettone» per la critica, da rivalutare secondo noi), ambientato a Hong Kong, durante la guerra di Corea. Ancora, A Farewell to Arm (Addio alle armi, 1957), sempre di King Vidor, per chiudere la carriera con The Towering Inferno (L’inferno di cristallo, 1974, John Guillermin).
Ma tutti ricordano Jennifer Jones negli umili panni di Bernadette, una semplice adolescente analfabeta dei Pirenei, quando, alla prima apparizione, l’11 febbraio del 1858, presso la grotta di Massabielle, tira fuori dal suo grembiale la corona del rosario, e prega come la Signora sta facendo. Lo spettatore è incantato dei suoi grandi occhi scuri che vedono Aquerò (“Quella-là”). Quella che noi tutti vorremmo vedere.