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Così la Cina punta all’indipendenza tecnologica (in ritardo di 10 anni)

Il presidente Xi Jinping traccia la linea e sposta di dieci anni in avanti l’ormai irraggiungibile piano “Made in China 2025”: entro il 2035, Pechino deve essere un leader tech a livello mondiale. Per riuscirci, dovrà trovare un modo per superare i limiti all’export imposti da Washington, o aggirarli

Autonomia tecnologica, nonostante tutto. È questo il diktat arrivato direttamente dal presidente Xi Jinping, che ha chiesto alla Cina di risolvere i problemi che non le permettono di raggiungere questo status. Non sono solo piaghe interne, ma soprattutto quelle che provengono da fuori a ostacolare lo sviluppo cinese. Le restrizioni statunitensi sull’export tecnologico, cui si sono uniti anche Paesi Bassi e Giappone, fanno male e privano Pechino degli strumenti necessari per chi è alla ricerca l’indipendenza tecnologica: a iniziare dai microchip e dagli strumenti di Intelligenza Artificiale, che la Cina utilizza anche per i suoi piani, inclusi quelli meno democratici.

Pertanto, “per far fronte alla competizione scientifica e tecnologica internazionale, raggiungere un alto livello di autosufficienza e auto-miglioramento”, ha dichiarato Xi Jinping di fronte al Politburo, l’ufficio politico del Partito Comunista Cinese (Pcc), “abbiamo urgentemente bisogno di rafforzare la ricerca di base e risolvere i problemi tecnologici dalla fonte”. Un approccio bottom-up, insomma, con cui Pechino spera di sopperire alle lacune che al momento caratterizzano il suo settore tech. Secondo le previsioni di Xi, entro il 2035 la Cina “dovrebbe classificarsi tra i Paesi leader nel mondo rispetto alla nostra strategia, la nostra forza tecnologica e il nostro esercito di talenti di alta qualità”.

Lo aveva già affermato una ventina di giorni fa, sempre parlando all’organo politico che riunisce ventiquattro membri, sostenendo come “la Cina dovrebbe sforzarsi di diventare un leader globale in importanti campi scientifici e tecnologici, un pioniere in aree interdisciplinari all’avanguardia, un importante centro scientifico e un hub di innovazione per il mondo”. Un’autosufficienza a cui bisogna arrivare nel più breve tempo possibile “per evitare di essere strangolati dai Paesi stranieri”, aveva aggiunto. Di fatto è un aggiornamento (spostando l’obiettivo di dieci anni più avanti, visto che al momento è irragiungibile) del già noto piano “Made in China 2025”.

A guidare il percorso per diventare una (vera) superpotenza tecnologica è, come sempre, lo Stato. Il governo ha infatti adottato da anni una posizione dominante sia nel mercato interno sia in quello internazionale, spingendo su investimenti pubblici e privati. “Solo accelerando la costruzione di un nuovo modello di sviluppo possiamo consolidare le basi del nostro progresso economico, migliorare la sicurezza e la stabilità e migliorare la nostra redditività, competitività e potere di sviluppo e sostenibilità nelle tempeste, prevedibili e imprevedibili”, aveva sottolineato il presidente cinese.

Tra quelle imprevedibili, ma neanche troppo, ci sono i limiti alle esportazioni imposti da Washington. Una decisione fortemente voluta da Joe Biden, per non contribuire ad alimentare l’autocrazia cinese, e che mina le ambizioni di Pechino. Il Dragone cerca tuttavia in ogni modo di aggirare le barriere: la Corea del Sud ha ritenuto colpevoli sette ex dipendenti (con pene da due e mezzo a quattro anni) di una consociata della Samsung, rei di aver trasferito in Cina materiale tecnologico per i semiconduttori. L’oro del ventunesimo secolo.


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