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Supply chain, cercando un equilibrio tra collaborazione e sovranità

CSA

In un mondo di confronto-scontro tra superpotenze, l’aspetto geopolitico (come il controllo delle supply chain) sta sovrastando le logiche di mercato. E la difesa nazionale passa dalla capacità di innovazione e dalla protezione del proprio know-how. Al Centro Studi Americani si sono confrontati Bellezza (Infratel), Billet (Acn), Di Sandro (Leonardo) e Puglisi (CSET)

DAL MERCATO ALLA SOVRANITÀ TECNOLOGICA

Dopo il crollo del Muro di Berlino, l’Europa ha vissuto un trentennio di prosperità sorreggendosi su tre colonne portanti: protezione statunitense, gas russo e manifattura cinese a basso costo. Oggi “ci svegliamo un po’ più deboli da questo European dream, e dobbiamo rivedere le nostre strategie”, ha commentato Francesco Di Sandro (Senior Vice President Strategic Planning dello Strategy and Market Intelligence Office di Leonardo). E nel momento in cui ci siamo resi conto che le tecnologie – così come le esportazioni – sono un mezzo di proiezione del potere e un terreno di confronto-scontro tra grandi potenze, il piano geopolitico ha sovrastato quello prettamente mercantilista. E i soggetti geopolitici sono impegnati ad acquisire sempre più tecnologie e sovranità, che viaggiano anche e soprattutto per mezzo delle catene di fornitura.

Su queste fondamenta si è svolto il panel “The race to disruptive technologies: nations as ecosystems of knowledge”, svoltosi mercoledì pomeriggio nella sede romana del Centro Studi Americani. E il profilo della potenza autoritaria cinese campeggiava sullo sfondo del dibattito. Lo ha illuminato Anna Puglisi (Director of Biotechnology Programs and Senior Fellow, Georgetown’s Center for Security and Emerging Technology), con un riferimento alla tecnologia che ha aperto il tema su scala globale: il 5G cinese e il rischio di spionaggio che ne consegue. Quello, ha detto l’esperta, è stato il segnale che ha accompagnato l’emersione delle questioni di sicurezza nazionale dalle logiche di mercato.

Ora che il campo si è allargato ad altre tecnologie emergenti – intelligenza artificiale, calcolo quantistico, biotecnologie –, occorre porsi delle domande su chi controlla il loro sviluppo e le catene di approvvigionamento. “È importante, andando avanti, definire le regole. Per certi versi, dobbiamo pensare all’impensabile. Come usiamo i modelli animali? Gli embrioni umani? Come proteggiamo i dati individuali e genomici, conservando la possibilità di utilizzarli per la ricerca e l’innovazione?”, si è chiesta l’esperta americana, puntualizzando che il discorso vale per il biotech tanto quanto le altre tecnologie. Si tratta, in ultima analisi, di bilanciare innovazione e limiti. Consci del fatto che la Cina vuole passare dall’essere una potenza (bio)tecnologica a superpotenza e considera la tecnologia come un bene nazionale, confondendo i confini tra militare e civile.

PROTEGGERE IL KNOW-HOW

“La distribuzione del valore lungo la catena dipende molto più dal saper fare che dal fare”, ha esordito l’ammiraglio Andrea Billet (Capo del Servizio Certificazione e Vigilanza dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale). Un caso evidente è la produzione degli smartphone, dove l’assemblaggio ha un costo marginale rispetto a quello delle componenti ad alto contenuto tecnologico. “In sintesi: maggiori le mie competenze specifiche, maggiori le quote di valore che mi saranno attribuite all’interno di una filiera produttiva”. Ne consegue, dunque, che il tessuto economico di una nazione, è composto dall’intreccio delle catene di valore e dai bacini di competenza che le compongono”.

L’Italia è presente e molto attiva in numerose catene di valore, anche nel caso delle nuove tecnologie: basti pensare al settore aerospaziale, ha spiegato l’ammiraglio, puntualizzando che la differenza rispetto ad altri Paesi “è che spesso le nicchie di eccellenza e competenza nazionali sono rappresentate da piccole e medie imprese”. La domanda che si è posta l’Acn “è come proteggere il patrimonio di conoscenza accademica e industriale che compone le catene di valore più importanti”. Consci del fatto che gran parte delle tecnologie emergenti sono digitali, o gestite con strumenti digitali. Infatti, tra i compiti primari dell’Agenzia rientrano la protezione delle infrastrutture cibernetiche.

L’Acn agisce per mezzo di attraverso un insieme organico, a partire da strumenti normativi – come il Golden power, che permette di analizzare gli investimenti esteri in settori strategici facendo da scudo verso le realtà estere che puntano alle aziende italiane per il know-how che hanno in pancia. In parallelo l’Acn dispone di capacità tecnico-operative (come il Csirt per la gestione degli incidenti informatici e il Cvcn che vigila sulle acquisizioni di prodotti destinati ad assetti critici). Adoperarli “è un esercizio continuo e delicato, perché richiede il necessario equilibrio per evitare che l’imposizione di misure organizzative o di investimento ad operatori economici privati diventi un vincolo alla competitività”, ha concluso Billet.

L’EUROPA NEL MONDO

Se l’ecosistema di innovazione cinese lavora da anni sul technology transfer, seguendo direttrici statali, e quello statunitense si sta riorientando per non offrire più il fianco, quello europeo non ha ancora deciso cosa vuole essere. Il Vecchio continente “non è ancora un soggetto geopolitico come gli Usa o la Cina, che riescono a proiettare il proprio sistema valoriale fuori dai propri confini. Bisogna investire per far crescere ecosistemi di innovazione”, ha commentato Marco Bellezza, amministratore delegato di Infratel Italia. D’accordo anche Di Sandro, che ha evidenziato la necessità europea di “dotarsi anzitutto di unitarietà d’intenti e di come metterla a terra, investendo per far crescere questi sistemi di innovazione”. Partendo dalla sfera accademica ma coinvolgendo anche Pmi e strumenti di finanziamento come il venture capital.

In tutto questo la grande impresa “ha una funzione sistemica, può assolvere le funzioni di capofila. Ma nulla si può fare senza unità d’intenti”, ha continuato il dirigente di Leonardo, azienda che è “per stare al passo con le esigenze di mercato, competitor e partner, è obbligata a stare sulla frontiera. Investiamo circa 1 miliardo e 800 milioni l’anno in innovazione tecnologica, cuore pulsante del nostro piano strategico”. Motivo per cui nel 2020 l’azienda ha creato i Leonardo Labs, incubatori tecnologici che sviluppano competenze a medio-lungo termine con obiettivi strategici. E si è dotata di un supercomputer per accelerare la capacità digitale per applicarla ai business tradizionali e digitalizzare i processi. Infine, sempre nel solco della responsabilità delle grandi aziende di farsi carico del proprio ecosistema di riferimento (che per Leonardo equivale a 11.000 fornitori nel mondo, di cui 4.000 in Italia) l’azienda si sta aprendo con iniziative strutturate all’ambiente esterno tramite accordi con università e startup.

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