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1923, quando Hollywood denunciò il cemento corrotto

Cento anni fa il regista Cecil B. De Mille in “I dieci comandamenti” portava sullo schermo lo scandalo del cemento corrotto di costruttori disonesti. Un film profetico che anticipava tante tragedie. Inclusa quella turca del febbraio 2023

Ancora oggi la prima parte di The Ten Commandments (I dieci comandamenti, 1923) di Cecil B. DeMille, quella biblica, ti incatena alla poltrona. Ti chiedi di come egli abbia diretto centinaia di comparse e di animali: l’esodo del popolo ebraico dall’Egitto è semplicemente maestoso: un sinfonico alternarsi di primi piani, figure intere, campi lunghi, campi lunghissimi di persone, animali, masserizie: un popolo in cammino. È evidente la sfida indiretta con le masse e il montaggio di Intolerance (1916) di David W, Griffith, per anni giudicato il film dalla regia più innovativa del tempo.

Lo spettatore di oggi si chiede come DeMille abbia plasticamente realizzato la lunga marcia nel deserto tra le dune con i soldati egiziani alle spalle che inseguono a cavallo (è il deserto della California). Ancora. Egli rimane attratto dai trucchi che il regista escogitò: per esempio, il fulmine scagliato da Dio (che naturalmente non vediamo) mentre scolpisce, di volta in volta, le parole dei dieci comandamenti sulle pareti della montagna in aramaico e poi, come un successivo fulmine ne traccia il perimetro rettangolare, come un moderno laser, distaccando la “tavola” della Legge, dalla parete rocciosa.

Soprattutto lo spettatore ha fisso negli occhi la spartizione delle acque del Mar Rosso, con le due barriere di acqua che rimangono in piedi, verticalmente, come due pareti, e gli israeliti che traversano il letto del fiume completamente asciutto: qui DeMille utilizzò una gigantesca vasca con il trucco del rimontare all’indietro lo svuotamento della stessa. Medesima soluzione della versione di trent’anni dopo, ma a colori, la più conosciuta, quella con Yul Brinner nei panni del Faraone (The Ten CommandmentsI dieci comandamenti, 1956, Cecil B. De Mille).

Questa versione del 1923 va recuperata soprattutto perché la seconda parte è di una attualità sconvolgente. Riavvolgiamo la pellicola nella nostra memoria. La prima parte de I dieci comandamenti, quella di cui abbiamo ora richiamato alcuni momenti salienti, termina con la discesa di Mosè, con in braccio le tavole della Legge. Ma trovando egli l’accampamento immerso in una folle festa orgiastica, in preda a danze e accoppiamenti illeciti intorno al vitello d’oro innalzato al centro dell’accampamento, scaglia le tavole contro l’idolo, distruggendolo. Subito dopo si diffonde la lebbra, punizione divina, e tutti corrono intorno a Mosè disperati, supplicandolo, affinché interceda presso Dio e li guarisca.

La scena sfuma in un interno di una umile ma pulita casa del primo Novecento. Una anziana madre sta leggendo la Bibbia seduta al tavolo della cucina. Ai suoi lati due figli, intorno ai trent’anni: uno, Dan, commenta scocciato «tutte favole»; l’altro, John, invece ha rispetto per il racconto biblico. La madre soffre per il figlio che non crede alla storia di Mosè.

John è il calmo e riflessivo Richard Dix (un attore cui affidavano personaggi retti e onesti, sia nel muto che nel sonoro, soprattutto nel western, vedi l’onesto sceriffo di The KansanLa città rubata, 1943, George Archainbaud), qui fa il falegname (allusione a San Giuseppe). L’altro figlio, Dan (un Rode La Rocque, esordisce in teatro all’età di sette anni, perfettamente strafottente e antipatico, mentre in realtà ebbe ruoli da innamorato; con l’avvento del sonoro non ottenne più contratti e ripiegò nel settore immobiliare: quando il cinema prevede il tuo futuro!), pian piano, entra nel business dell’edilizia, nella corruzione. Per sfuggire alla polizia, tenterà una affannata fuga via mare, con un motoscafo, verso il Messico, in una notte di pioggia e uragani, schiantandosi contro gli scogli.

Quello che ci interessa qui (ricorderemo il capolavoro di DeMille nei suoi aspetti innovativi in una prossima occasione, per il centenario) è il personaggio di Dan. Egli ritenendosi fortunato, non solo sposa una bella ragazza, Mary (una Leatrice Loy delicata e paziente: di cui era innamorato John, che l’aveva ospitata nel suo laboratorio di falegname in una notte di pioggia – il tema metaforico della notte e del maltempo torna – fradicia e affamata, e poi accolta in casa: il laboratorio era comunicante con il piccolo appartamento), ma anche per la consistente posizione economica rapidamente raggiunta. Dan si sente realizzato nel lavoro, ricco, inarrestabile, indistruttibile. Aveva scommesso con il fratello che «violare tutti i Comandamenti» non ti cambia la vita, in quanto questi sono «banali vecchie credenze», e il successo «basta prenderselo».

Tra i comandamenti violati da Dan (non rispetta le festività; non onora la madre disprezzando l’educazione e le raccomandazioni della donna; dichiara il falso; tradisce sua moglie) c’è quello del furto: ordina al capomastro dei manovali e muratori, di preparare il calcestruzzo con poco cemento e tanta sabbia, unendo nell’impasto sacchi di juta fradici, per renderlo corposo.

Tra le commissioni edilizie che si aggiudica, vi è quella di edificare una nuova cattedrale. Non appena questa è quasi finita, la vecchia madre, donna di fede come sa lo spettatore, va a visitarla. Il custode del cantiere, saputo che è la madre del costruttore, la fa entrare. Ella vedendo la bella cattedrale, è felice, pensando che Dan, con questa sua opera si stia convertendo. Ma, ecco, compaiono alcune crepe, poi altre ancora. Si allargano, e l’edificio, improvvisamente, cede in più parti, non permettendo alla donna si mettersi in salvo. Qui DeMille dà prova di saper costruire la suspense attraverso un montaggio di primi piani e dettagli dei muri, delle volte, dei soffitti. La donna cade colpita da pezzi di travi, muri, solai.

Portata fuori, adagiata accanto alle macerie, circondata dei primi soccorsi, prima di emettere l’ultimo respiro, assicura ai due figli che penserà a loro dal cielo. Dan e John sono sconvolti. Dan, cosciente dell’ingente danno e della morte di sua madre, piange lacrime sincere. Lo spettatore si aspetta una sua redenzione.

Invece, il giorno dopo, fuori di sé per la morte della madre, si precipita dall’amante franco-cinese, Sally Lung (una perfetta perversa e seducente Nita Naldi: tre anni prima accanto a Rodolfo Valentino in Sangue e Arena, la giovane attrice irlandese dall’infanzia difficile, già seduceva intere platee), ritenendola responsabile della tragedia: per acquistarle sempre più gioielli e pagarle una vita lussuosa, egli aveva alterato gli impasti di calcestruzzo risparmiando sul cemento. Lei ora lo rifiuta sapendo che verrà incriminato per il crollo della cattedrale, gli nega la preziosa collana che Dan vorrebbe indietro per pagare gli avvocati e l’eventuale cauzione, visto che sta per essere arrestato. In un atto di ira, le spara, nel suo appartamento-atelier orientale, ornato di drappi e avvolto in piccole nubi di fumi.

Hollywood, tramite il cristiano Cecil B. DeMille, autentico credente, il quale non tollerava che gli attori e le comparse, vestiti da personaggi biblici, nelle pause di lavoro sul set, usassero parole e atteggiamenti sconvenienti, ricordando loro che “erano” degli israeliti credenti (lo stesso atteggiamento di rispetto di Mel Gibson, anni dopo, sul set di The Passion), denunciava, tramite il cinema, per primo, lo scandalo del «cemento corrotto». Anni dopo, dal ponte Morandi di Genova, caduto in pezzi mentre diversi automobilisti lo attraversavano, alle costruzioni civili in Turchia sfarinatesi a causa del terremoto, abbiamo assistito alla morte di molti innocenti. A degli omicidi, se non premeditati sicuramente prevedibili. A causa della disonestà, della sete di denaro, di costruttori corrotti. Come il loro cemento. Colpevoli, moralmente, anche di aver violato più di un comandamento.

 

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