La struttura del lavoro che pare divenire sempre più chiara nel settore culturale rischia di ridurre le possibilità di sviluppo che tale settore potrebbe avere. Stefano Monti spiega perché
Dal punto di vista lavorativo, quando si guarda ai settori delle industrie culturali e creative si incorre spesso in riflessioni che, decontestualizzate, acquisiscono connotati surreali. Si fa riferimento, in particolare, alla dimensione edonistica del lavoro, e a come questa componente rientri all’interno delle scelte dei professionisti dello spettacolo, così come in altri settori riconducibili alla cultura.
Lo si fa, si badi bene, non solo “tra imprenditori”, ma lo si fa anche in articoli scientifici, dando quindi per scontato che la componente del piacere di suonare uno strumento musicale o altre dimensioni affini, rientri all’interno delle scelte lavorative dei professionisti.
Da un punto di vista economico, tuttavia, questo ragionamento internalizza dei fattori che sono completamente estranei al contratto tra due parti. Il piacere di fare il proprio lavoro è una componente essenziale in qualsiasi settore, ma non sul profilo contrattuale.
Dare per scontato che questa dimensione esista, significa ribaltare completamente lo schema concettuale che è alla base del rapporto di lavoro. Il concetto qui è molto più semplice di quanto possa apparire. In un normale contratto di lavoro c’è un soggetto che ha bisogno di lavoro per poter condurre le proprie attività (impresa) e un soggetto che dispone di tempo e competenze che possono aiutare l’impresa a realizzare le attività che intende condurre.
Un’impresa che ha bisogno di un muratore per costruire un muro lo ricerca sul mercato, definisce il costo orario sulla base di vincoli contrattuali di legge e sulla base di eventuali componenti premiali. Si definiscono pertanto le dimensioni contrattuali e poi si procede con l’assunzione.
Nella contrattazione tra datore e dipendente, non viene assolutamente discusso il livello di bellezza del progetto su cui il muratore dovrà intervenire. Gli operai che lavorano con studi di architettura di alto profilo non percepiscono stipendi più bassi a fronte del fatto che al termine del lavoro potranno apprezzare la bellezza degli edifici che hanno contribuito a costruire.
Quando invece si internalizza questa dimensione, e la cultura lo fa, si crea una dinamica un po’ meno lineare: l’organizzazione ha bisogno della competenza del dipendente, ed è disposta a pagare per quella competenza. Ma al contempo, il fatto che al dipendente piaccia il proprio lavoro viene inserito nel contratto come una sorta di servizio che l’impresa vende al dipendente. Come se la componente di piacere che un professionista prova nello svolgere il proprio lavoro fosse un servizio di entertainment che l’organizzazione gli somministra.
Questo tipo di riflessione diviene centrale, chiaramente, quando lo scenario del mercato del lavoro presenta un eccesso d’offerta (tanti laureati che vorrebbero lavorare nel mondo della cultura) e condizioni contrattuali non vincolate a standard nazionali, come testimoniato dal crescente ricorso alle Partite Iva.
Va precisato che con queste riflessioni, non si vuol in alcun modo sostenere che lo strumento della Partita IVA sia deleterio per il settore culturale. Anzi. Si vuole piuttosto restituire una condizione che, fuor di retorica, è nota a chiunque lavori nel mondo delle Industrie Culturali e Creative e che, tuttavia, distorce una condizione che, in altri contesti, rappresenta un fattore distintivo di successo.
Meglio detto, in un contesto industriale tradizionale, la differenza tra chi si limita a compiere il proprio lavoro e chi invece lo svolge con passione ed entusiasmo, è una delle chiavi di successo delle organizzazioni, perché l’entusiasmo incrementa la produttività, e la costruzione di team di persone che lavorano con passione aiuta a definire un clima organizzativo positivo, condizione che si traduce poi in differenti dimensioni, che vanno dalle innovazioni di processo e di prodotto, alla maggiore puntualità delle consegne, ad un minore tasso di assenteismo e ad altre variabili che, anche se non direttamente, generano in ogni caso degli impatti anche sotto il profilo economico e finanziario.
Anche se in realtà è un fenomeno molto più complesso, semplificando al limite si può quindi dire che, nelle industrie tradizionali, a parità di stipendio, una persona più motivata tende a far crescere l’organizzazione e questo si traduce poi in una futura crescita dello stipendio (premialità, ecc.).
Se invece questa “quota edonistica” rientra all’interno delle condizioni economiche di contratto in quanto elemento che compensa una minore retribuzione, si neutralizza il potenziale di accrescimento dell’organizzazione nella sua interezza.
Ci sono, per fortuna, altri fenomeni di cui bisogna tener conto, che in ogni caso consentono comunque di isolare i professionisti o i dipendenti che svolgono con maggior passione il proprio lavoro e che quindi consentono alle organizzazioni di poter dare loro maggiori margini di crescita.
Al netto di questi fattori, però, la struttura del lavoro che pare divenire sempre più chiara nel settore culturale rischia di ridurre le possibilità di sviluppo che tale settore potrebbe avere.
Perché le organizzazioni sono pur sempre costituite prevalentemente da persone. E persone che già sentono di far troppo per quanto vengono in realtà pagate, difficilmente faranno ancora di più per fare in modo che l’organizzazione cresca.
E questo è un dato di fatto, di cui, piaccia o meno, è necessario tener conto.