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Le regionali e l’epifenomeno del “non voto”. La riflessione di Celotto

Non andare a votare non è questione di obbligo o di sanzioni, ma una questione di crisi della democrazia, visto che da decenni siamo in quella che molti chiamano post-democrazia. Senza i partiti di massa, con le ideologie impallidite, in un sistema basato sulla televisione, il digitale e i social network, ciascuno di noi si sente sempre più lontano dalla democrazia rappresentativa. Il commento di Alfonso Celotto

Negli ultimi anni, a ogni tornata elettorale ci sorprendiamo dell’astensionismo sempre maggiore. Un fenomeno preoccupante per la democrazia.

Fino alle elezioni politiche del 1979, in Italia aveva votato sempre oltre il 90% degli aventi diritto. Per scendere all’86,3% nel 1994 e poi calare in maniera costante: 82,8% nel 1996, 78,1 nel 2008, 72,9 nel 2018 fino al 63,9 del 2022.

Alle elezioni negli enti locali è andata anche molto peggio, con i sindaci anche delle grandi città che sono stati eletti spesso da meno del 50% degli elettori. Nel 2021 a Roma ha votato il 40.6 % degli elettori e a Milano il 47,7%.

Ora alle regionali in Lombardia e nel Lazio, la prima giornata di voto alle 19 ha visto una affluenza al 26 e 24%, cioè meno della metà del 2018 (in cui si votava in una sola giornata e in abbinamento alle politiche).

Dati davvero scarsi.

Il calo della affluenza alle urne è un fenomeno che riscontriamo in tutti i Paesi. Basta pensare che alle ultime politiche in Francia ha votato il 47% degli elettori, nel Regno Unito il 67% e in Germania il 76%. Mentre soltanto pochi Paesi nordici mantengono una affluenza oltre l’85% (Svezia, Danimarca). Affluenza che si raggiunge anche in il Belgio e in Lussemburgo: ma in questi due ultimi Stati il voto è obbligatorio, come anche in Australia, in Brasile o in Corea del Nord.

Uno dei punti è proprio questo: ma perché in Italia il voto non è un obbligo?

I nostri Padri Costituenti discussero a lungo, perché Democrazia cristiana, liberali e monarchici erano favorevoli all’introduzione del voto obbligatorio, perché temevano una minore affezione dei loro elettori; mentre Comunisti, repubblicani e socialisti erano per la libertà di voto, anche per ragioni ideologiche.

Così nacque il compromesso dell’art. 48 Cost., con il voto definito “dovere civico”.

Un voto comunque doveroso, tanto che fino al 1993 la legge prevedeva sanzioni, con la menzione nel casellario giudiziario e l’affissione all’albo pretorio dei comuni dell’elenco di chi non avesse votato.

Ma, in verità, il punto è un altro. Non andare a votare non è questione di obbligo o di sanzioni, ma una questione di crisi della democrazia, visto che da decenni siamo in quella che molti chiamano post-democrazia. Senza i partiti di massa, con le ideologie impallidite, in un sistema basato sulla televisione, il digitale e i social network, ciascuno di noi si sente sempre più lontano dalla democrazia rappresentativa.

È un problema di cui il non voto è soltanto l’epifenomeno, cioè la punta dell’iceberg. Con un grande bisogno di chiederci come sarà possibile di recuperare la democraticità della partecipazione e della passione democratica, consapevoli che sarà inevitabile cercare l’ausilio delle nuove tecnologie.


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