Prima che sia troppo tardi, la guerra ha reso evidente che la Difesa europea dovrebbe adottare e mettere concretamente in atto il motto tutti per uno, uno per tutti, assicurando che insieme si possa partecipare alla costruzione di una vera Europa della Difesa. L’analisi di Michele Nones, vicepresidente dell’Istituto affari internazionali (Iai)
La guerra in Ucraina è servita, tuttavia, da brusco risveglio per i Paesi democratici e, in particolare per i membri dell’Unione europea, dalla fine dell’illusione che non avremmo più visto guerre tradizionali sul Vecchio continente. Tutti si sono subito resi conto che aver mantenuto per trent’anni al minimo la nostra spesa militare (e, di conseguenza, le nostre capacità militari e industriali) ha lasciato la difesa europea in una condizione di tale debolezza al punto che per sostenere l’Ucraina si deve fare una specie di questua europea, raccogliendo anche i contributi militari più limitati (al di là, ovviamente, del messaggio politico che, comunque, viene dato alle ambizioni imperiali della Federazione russa). Finora i passi avanti nel processo di integrazione europea nel campo della difesa si sono mossi su una scala temporale decennale, mentre è ormai chiaro che dovrebbe essere triennale se non biennale o, forse, annuale.
Quanto al livello delle spese militari, troppi Paesi europei non si sono veramente impegnati nell’ultimo decennio nel rispettare l’impegno a investirci il 2% del Pil entro dieci anni, come concordato nel vertice Nato di Cardiff nel 2014 (proprio dopo l’annessione della Crimea da parte russa) e poi ribadito costantemente anche in sede europea. Fra questi anche l’Italia, che lo scorso anno ha deciso in modo unilaterale che la scadenza era per noi posticipata al 2028. Questo indicatore non esprime compiutamente l’effettivo impegno nel campo della difesa e ne andrebbero considerati anche altri: la quota degli investimenti e di quelle di funzionamento, le capacità operative, l’addestramento, l’organizzazione delle forze, la partecipazione alle missioni internazionali, eccetera. Ma senza un adeguato finanziamento alla fine tutto questo non basta, anche perché non è sostenibile nel tempo.
Dopo il 24 febbraio molti Paesi europei hanno deciso di cominciare a recuperare il ritardo ma, come un corpo denutrito non può tornare in poco tempo al peso ideale (rischia, anzi, di andare incontro a seri problemi), così ingenti stanziamenti per la difesa senza una meditata pianificazione e senza un coordinamento europeo non possono bastare. C’è il serio rischio che alla fine di questo decennio l’Unione europea abbia un ventaglio di equipaggiamenti ancora più ampio di quello odierno (compresi molti di provenienza extra-europea, che riducono ancora più la sovranità tecnologica del Vecchio continente), con tutte le conseguenze sull’effettiva integrazione militare e sulla sua difesa. Per mitigare questi rischi è importante che gli Stati membri si coordinino meglio. In particolare, quelli maggiori che di fatto esprimono tre quarti delle capacità militari europee.
Il punto di partenza è che ciascuno possa mettere in campo adeguate e omogenee disponibilità finanziarie nel campo della difesa. Una partenza in ordine sparso e una diversa velocità renderebbe impossibile ogni tentativo di trovare soluzioni congiunte nel campo delle acquisizioni e anche in quello di nuovi programmi di sviluppo. Tuttavia per Paesi troppo indebitati e alle prese con la crisi economica pre e post-pandemica questo percorso è difficile perché impatterebbe sul rispetto del Patto di stabilità. Di qui la proposta, già avanzata in passato ma oggi tornata di assoluta attualità, di escludere dai parametri del Patto una parte delle spese per la difesa. Se la Difesa europea è un superiore interesse comune dovrebbero essere esclusi, per principio, tutti gli investimenti che mirano a sanare le carenze militari europee individuate nel costante monitoraggio svolto dall’Eda, dal Comitato militare (Eumc) e dallo Stato maggiore dell’Unione europea (Eums). Fra questi dovrebbero esserci tutti quelli intergovernativi e quelli che deriveranno dai programmi di ricerca e sviluppo cofinanziati dall’Ue.
Tenendo conto della drammatica urgenza del rafforzamento militare europeo, all’inizio potrebbero essere compresi anche quelli nazionali, con alcune condizioni volte a evitare derive protezionistiche e superare le preoccupazioni di alcuni partner (in particolare i cosiddetti Paesi frugali): primo, la quota escludibile potrebbe essere limitata al 50%; secondo, la misura potrebbe essere limitata a pochi anni; terzo, il programma interessato dovrebbe comunque corrispondere a un’esigenza riconosciuta a livello europeo; in ultimo, dovrebbe esserci un coinvolgimento industriale europeo. Prima che sia troppo tardi, la difesa europea dovrebbe adottare e mettere concretamente in atto il motto tutti per uno, uno per tutti, assicurando che insieme si possa partecipare alla costruzione di una vera Europa della Difesa.