L’intervista all’ex prefetto di Napoli si inserisce nel contesto del dibattito lanciato da Formiche sul futuro della sicurezza nazionale in Italia. “Per molti anni siamo stati indietro nella formulazione e condivisione pubblica delle politiche di sicurezza nazionale, quando e se esistevano, e che, è quasi banale dirlo, non possono costruirsi solo nelle stanze della politica”
“Investire con coraggio sull’acquisizione di nuove competenze, anche con il coraggio di aprirsi verso il modo esterno”. È il suggerimento che arriva da Marco Valentini, consigliere di Stato, già prefetto di Napoli e direttore dell’ufficio Affari legislativi e relazioni parlamentari del ministero dell’Interno, nel contesto del dibattito avviato da Formiche.net sul futuro dell’intelligence e della sicurezza nazionale in Italia. Da qualche settimana Valentini è anche presidente onorario della sezione “Intelligence” dell’Università della Calabria, coordinata da Mario Caligiuri.
Quasi 16 anni fa entrava in vigore la legge 124 del 2007 che ha riforma il sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica. Quali sono state le novità più significative rispetto alla normativa precedente?
Le novità sono state molte. Tuttavia, quella che considero più importante non riguarda gli aspetti ordinamentali, né la dinamica poteri-controlli, quanto piuttosto il processo che ha portato alla legge di riforma, che considero aver realizzato un vero salto di qualità sotto il profilo della cultura istituzionale e della consapevolezza di quanto la funzione intelligence debba essere considerata un aspetto essenziale della funzione di governo, garantendo, nel contempo, protezione e garanzia per lo Stato comunità e le Istituzioni che lo rappresentano.
Si tratta di un aspetto fondamentale, perché nel binario di una cultura istituzionale matura, ancorata ai valori costituzionali, si elide il rischio della separatezza, delle zone d’ombra, che nulla hanno a che fare con l’indispensabile riservatezza e che non pochi problemi avevano generato in passato; integrando, invece, pienamente, questa funzione essenziale con le altre, pure importanti, affidate al potere esecutivo e al controllo del Parlamento. Naturalmente questo processo, come tutti i processi culturali, è stato lungo, perché si era molto indietro, come Paese, rispetto alla necessità di comprendere la moderna funzione degli apparati di intelligence in un sistema a costituzionalismo democratico. Ma alla fine, nella breve legislatura 2006/2007, questa è stata forse l’unica importante riforma, approvata peraltro con una maggioranza amplissima.
Che cos’è cambiato rispetto alla normativa precedente?
Nonostante io conservi un giudizio largamente positivo sulla prima legge di riforma, approvata nell’ottobre del 1977, alcuni passaggi della riforma del 2007 hanno colto pienamente nel segno rispetto a esigenze ormai mature messe in luce dalla concreta esperienza. Penso allo spostamento del baricentro del coordinamento sulla figura del presidente del Consiglio dei ministri, attraverso l’Autorità delegata, con la creazione di un Dipartimento specificamente servente a questa fondamentale funzione, alla più nitida individuazione delle competenze delle agenzie, alla temporizzazione del segreto di Stato, alla disciplina in norma primaria della classificazione amministrativa di segretezza, alle norme sulle garanzie funzionali, ai rapporti con l’Autorità giudiziaria. Più in generale, può dirsi che nel nuovo Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica l’ordinamento politico e l’ordinamento amministrativo e operativo dell’informazione per la sicurezza si sono bilanciati in un quadro di soddisfacente coerenza.
Qual è il suo giudizio sulla legge (e successivi interventi normativi) dopo quasi 16 anni?
Pur avendo maturato un’esperienza professionale fortemente legata al momento legislativo, e forse proprio per questo, ho sempre conservato una certa diffidenza nei confronti di chi pensa che i segnali di cambiamento, di innovazione, passino esclusivamente attraverso nuove leggi. In verità, nel nostro sistema abbiamo troppe leggi e non di rado si ritiene meno remunerativo investire sul funzionamento dell’esistente rispetto all’effetto annuncio di una nuova legislazione. Devo dire però che nel caso del sistema d’intelligence, questa anomalia non si è verificata. La seconda riforma è giunta esattamente a conclusione di un ciclo trentennale che la rendeva non solo necessaria ma realmente e fortemente innovativa, e le modifiche apportate successivamente – da considerare un’eccezione se si pensa che in vigenza della legge precedente non si era mai verificata un’integrazione della legge fondamentale – sono state puntuali e mirate. Le buone leggi, oggetto di una oculata manutenzione quando necessario, sono destinate a durare.
L’esempio più illuminante è la lungimirante riforma del sistema della pubblica sicurezza, datata 1981, fortemente innovativa su molti versanti e fondata sul modello del coordinamento, che non solamente funziona ma forse è in grado ancora di esprimere nuove prospettive perfettamente al passo con i tempi. Per queste considerazioni, sottolineavo l’importanza che le riforme destinate a lasciare un segno siano espressione di un allineamento tra ciò che la società chiede e ciò che il legislatore è in grado di offrire. Se questa simbiosi è carente, anche la migliore delle leggi resterà scritta sulla carta, o nel migliore dei casi stenterà a mettersi in moto.
L’attuale scenario internazionale richiede una nuova riforma o alcuni aggiustamenti?
Collegandomi a quanto appena detto, devo anche considerare che le buone leggi rappresentano un’infrastruttura che deve essere capace di affrontare i mutamenti, davvero velocissimi, a volte persino sorprendenti e imprevedibili, della concreta realtà, non solo – con riferimento all’intelligence – rispetto al tema tradizionale delle minacce, ma anche e forse ancora di più al tema più generale della complessità delle trasformazioni, che allignano in ogni campo. Se l’infrastruttura funzione, è capace di mettere in atto processi di autoriforma e di ottimizzazione delle proprie performance senza invadere il campo della regolazione, che non di rado rappresenta un riflesso pericoloso, se solamente burocratico. Va da sé che a volte ciò può non essere sufficiente, e allora ben venga la manutenzione anche delle regole. Non penso che il mutato scenario internazionale richieda una riforma.
Si parla di Servizio unico, se ne è parlato anche in passato, ma ho sempre pensato, in coerenza con quanto detto, che non sono i modelli a essere dirimenti. Quello che invece mi pare necessario è investire con coraggio sull’acquisizione di nuove competenze, anche con il coraggio di aprirsi verso il modo esterno. Per questo, da tempo condivido l’idea di dare forma a un Consiglio di sicurezza nazionale che, sull’esempio di altri Paesi, vedo principalmente come luogo per mettere stabilmente a confronto, vieppiù nelle situazioni di emergenza e di crisi, le migliori intelligenze e competenze, superando l’approccio solamente politico alle questioni strategiche. Per molti anni siamo stati indietro nella formulazione e condivisione pubblica delle politiche di sicurezza nazionale, quando e se esistevano, e che, è quasi banale dirlo, non possono costruirsi solo nelle stanze della politica.
Al centro della riforma del 2007 c’era anche un elemento di novità: l’attività di diffusione della cultura dell’intelligence nel nostro Paese. Anche alla luce del ruolo delle agenzie d’intelligence (soprattutto quella anglosassoni) prima e durante la guerra in Ucraina, crede che questa debba essere potenziata?
Senz’altro si. Fino a un tempo non molto lontano, invero, non si sapeva fino in fondo cosa significasse l’espressione cultura dell’intelligence. Eppure, rappresenta uno straordinario contenitore e una preziosa opportunità di condivisione di regole, di principi e di valori che sono alla base della convivenza di una comunità. Dentro questo contenitore, troviamo molte cose: la relazione tra mondo dell’intelligence e accademia; la comunicazione istituzionale capace di distinguere segreto necessario e segreto tout court; l’assunzione di responsabilità politica delle scelte; l’attitudine a interagire con l’opinione pubblica e i media; la capacità di conferire centralità agli interessi fondamentali del Paese in un’ottica nazionale e non nazionalistica.
L’elenco potrebbe continuare. Ho recentemente ricordato come, subito dopo gli eventi disdicevoli dello scandalo dei fondi neri del Sisde, Carlo Mosca, che di quella struttura era diventato vicedirettore, mentre veniva consigliato silenzio e ripiegamento, chiusura in sé stessa di una struttura provata negli onesti servitori dello Stato che pure le appartenevano, ebbe un rilesso contrario, coraggioso e lungimirante. Attraverso una rivista e un sito web aprì, con lo strumento della cultura, alla conoscenza della funzione intelligence, avvicinando un mondo intellettuale e una comunità più vasta fino ad allora diffidente e lontana. È stato forse anche merito di questo slancio se, dopo anni, la morte tragica ed eroica di Nicola Calipari ha visto per la prima volta, su tutti i mezzi di stampa praticamente all’unanimità, apprezzare il ruolo degli uomini dell’intelligence e la loro funzione, finalmente compresa.