Non è un caso, forse, che il risultato peggiore lo abbiano ottenuto i partiti meno strutturati. I partiti “nuovi”, quelli affidati al carisma del leader. Il corsivo di Andrea Cangini
Nei giorni precedenti il voto regionale, e nelle ore immediatamente successive, si è molto parlato del profilo personale dei candidati governatori di Lazio e Lombardia e degli equilibri interni alle coalizioni che li sostenevano, o che avrebbero potuto sostenerli. Poco o nulla si è invece discusso sui partiti. I partiti in quanto tali.
Ebbene, tra le tante chiavi di lettura possibili del risultato elettorale c’è anche questa: l’importanza dei partiti politici in quanto tali. Non è un caso, forse, che il risultato peggiore lo abbiano ottenuto i partiti meno strutturati. I partiti “nuovi”, quelli affidati al carisma del leader. Essenzialmente il Movimento 5 Stelle, ormai mutato nel partito personale di Giuseppe Conte, è il Terzo Polo della coppia Calenda-Renzi. Poco dibattito interno, strutture minimaliste, scarsa attività politica sul territorio e modesto radicamento locale: con le dovute eccezioni a livello nazionale, sono queste le caratteristiche dei partiti in questione. E c’è da credere che queste caratteristiche abbiano contribuito ad influenzare negativamente il risultato elettorale.
Mai come oggi, le leadership sono precarie. Ma come oggi, le novità hanno scadenze brevi come gli yogurt. Nessuno, neanche un redivivo de Gaulle, può oggi ragionevolmente pensare che la propria “diversità” sia destinata a durare nel tempo: lo smalto si scalfisce in fretta, la patina sgargiante scolorisce rapidamente e presto ciascun leader nuovo finisce per essere percepito come un vecchio burattino del teatrino politico. Il problema si risolve affidandosi a metodi antichi. Con la militanza, con l’ascolto, con il confronto, con la democrazia interna e con la giusta fiducia nell’autonomia dei quadri dirigenti locali. In una parola, con la politica.