A Bruxelles è stato presentato il piano industriale per il Green Deal. Per implementarlo, servirà alleggerire e velocizzare le regole, soprattutto per l’estrazione delle materie prime. Portarle sul mercato richiederà investimenti strategici lungo tutta la filiera. La diversificazione delle forniture sarà un altro tassello. Mentre i colossi dell’automotive già si muovono…
Mentre l’Europa cerca le nuove rotte del gas nel Mediterraneo per liberarsi definitivamente dal giogo russo, l’implementazione del Green Deal richiede un altrettanto audace strategia per le materie prime critiche. A partire, naturalmente, dal litio, ingrediente essenziale per le batterie che presto diventerà “più importante di gas e petrolio”, secondo la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.
A questo proposito, a Bruxelles è stato presentato il Green Deal Industrial Plan (Gdip), una concreta risposta all’Inflation Reduction Act statunitense a patto però di un importante ripensamento degli aiuti di Stato, e non solo. Al netto delle criticità emerse dalla Comunicazione, sono quattro i punti essenziali del Gdip: snellimento del quadro regolatorio, incremento e semplificazione dei fondi nazionali ed europei, sviluppo di nuove competenze per le tecnologie green, rafforzamento della cooperazione internazionale.
Due importanti pilastri del nuovo pacchetto normativo saranno il Net Zero Industry Act, che stabilirà obiettivi di sviluppo di capacità industriale entro il 2030, accelererà i processi normativi di permesso e autorizzazione degli impianti rinnovabili, e il Critical Raw Materials Act per aiutare il blocco europeo a garantirsi gli approvvigionamenti di materie prime necessarie agli obiettivi industriali e climatici. Inoltre, la Commissione sarebbe in procinto di velocizzare l’iter di approvazione di 5 nuovi accordi commerciali per le forniture, tra cui Indonesia, Australia, Cile, Argentina e Brasile. Paesi che custodiscono importanti risorse di nickel e litio e altre materie prime.
Entro solo il 2030, la domanda europea di terre rare per le turbine e i motori elettrici crescerà di cinque volte, il consumo di litio aumenterà di 60 volte entro la metà del secolo, mentre la richiesta delle industrie europee per cobalto e grafite potrebbe essere di 15 volte gli utilizzi attuali, secondo le stime del braccio scientifico della Commissione, il Joint Research Centre.
Una necessità di importare materie prime dai Paesi esteri – pensiamo alla dipendenza dalla Cina per i metalli di terre rare (circa il 90%) e la grafite (47%), o al litio dell’America Latina (78%), il cobalto dalla Repubblica Democratica del Congo (68%) e molte altre – che potrebbe addirittura aumentare se l’Unione europea riuscirà a consolidare le industrie a valle della supply chain come auspicato dal Gdip. A partire dalle batterie elettriche. Secondo un incoraggiante studio di Transport & Environment, riportato su Formiche.net, nel 2027, nello scenario più ottimistico che include tutti i progetti già pronti e in fase di lancio potenzialmente sul mercato, la produzione interna di materie prime critiche potrebbe coprire già due terzi della domanda europea. Inoltre, entro la fine del decennio oltre il 50% della domanda interna di litio raffinato potrebbe essere soddisfatta da progetti continentali.
È il caso di Imerys (Francia), Infinity Lithium (Portogallo), European Lithium (Austria), Albemarle e Vulcan Energy Resources (Germania), Green Lithium (sponda Uk) e altri. Progetti industriali in fase di lancio, che potrebbero portare (a seconda del loro effettivo esordio sul mercato) tra le 10 e le 100mila tonnellate di capacità di lito raffinato (le stime variano, a seconda del prodotto sia esso idrossido di litio o carbonato di litio). Molto dipenderà dagli accordi commerciali che riusciranno a stipulare con i produttori europei di batterie, in particolare dei catodi, a valle. In secondo luogo, una filiera europea sicura e sostenibile nascerà con più miniere sul suolo continentale.
È il caso, per esempio, del progetto di estrazione di litio di Cinovec, in Repubblica Ceca. Le quotazioni di European Metals Holdings, azienda mineraria australiana che possiede la licenza per lo sviluppo del sito, sono schizzate del 18% dopo che è stato classificato come “progetto strategico” dalle autorità locali, dal governo ceco e dalla Commissione europea. La nomina consentirà al progetto di accedere ai fondi attraverso il Just Transition Fund (JTF), un meccanismo comunitario che consente alle regioni ad alta intensità di emissioni e fortemente dipendenti dagli idrocarburi di accedervi per facilitare la transizione verde.
Secondo le stime preliminari presentate dall’azienda ad inizio gennaio, il deposito potrebbe produrre 29.386 tonnellate annuali di idrossido di litio. Si tratta del più grande deposito di spodumene rocciosa sul suolo europeo e il quarto a livello mondiale (i più importanti sono in Australia, responsabile del 46% della produzione di litio nel 2021). La società utility Cez, sotto il controllo dello stato cecoslovacco con oltre il 70% delle quote azionarie, possiede il 51% di interessi sul progetto attraverso la sussidiaria di European Metals, Geomet.
“Quest’approvazione”, ha commentato Keith Coughlan, ceo dell’azienda, “fornisce ulteriore evidenza del forte supporto da parte delle autorità ceche e dell’Unione Europea e del riconoscimento del progetto come critico per consentire all’Ue di raggiungere i suoi obiettivi di autosufficienza per i litio entro il 2030”. Il progetto potrà ricevere fino ad un massimo di 49 milioni di euro, accelerandone lo sviluppo e riducendo la timeline per portare sul mercato europeo l’importante risorsa mineraria.
Si tratta di un importante passaggio che segnala la necessità di partnership pubblico-private lungo la supply chain delle materie prime. Secondo quanto trapelato dalle indiscrezioni, l’istituzione di un Fondo Sovrano europeo, per canalizzare i fondi anche attraverso i privati, e una classificazione di altri progetti come strategici potrebbero essere le chiavi per facilitare, e agevolare, l’apertura di nuovi siti estrattivi e impianti di raffinazione sul suolo europeo.
Una strategia che dovrà includere, come detto pocanzi, la velocizzazione dell’iter burocratico (regolamenti ambientali) e assicurare la cosiddetta “licenza sociale per operare” (i movimenti Nimby – not in my backyard) che hanno a lungo ostacolato l’industria mineraria europea. È il caso, per esempio, della miniera di litio di Barroso, nel nord-est del Portogallo: gestita da Savannah Resources, avrebbe dovuto avviare le operazioni nel 2020 ma è stata costretta a posticipare più volte, in attesa dei permessi ambientali, al 2026. Oppure, del progetto da 2.4 miliardi di euro di Jadar, della multinazionale mineraria Rio Tinto, in Serbia. Sotto la pressione delle proteste locali, il governo serbo ha ritirato la licenza alla società e non si vedono prospettive per un dietrofront. È il paradosso del green: vogliamo le tecnologie pulite, ma con le mani sporche dei paesi in via di sviluppo salvo poi puntare il dito contro le nuove dipendenze da Paesi autoritari.
Risolvere il trilemma dei “metalli rari” – indispensabili per gli obiettivi climatici, per l’autonomia tecno-industriale e geopolitica e non esenti da criticità socio-ambientali – è una sfida che l’Europa vuole affrontare, ma che richiederà investimenti (e costi) enormi di fronte alla serrata competizione cinese e ora anche degli Stati Uniti. Secondo le stime di BloombergNEF, il mercato globale delle materie prime critiche per la transizione energetica sarà un’opportunità da 10 trilioni di dollari entro il 2050 in uno scenario Net Zero. Il problema per molte giurisdizioni (come Usa e Ue) è garantire contemporaneamente, appunto, una crescita dell’offerta, bassi costi della materia prima e ridurne l’impatto ambientale e climatico.
Nel caso europeo, la contraddizione si fa evidente se inseriamo i progetti di “autonomia strategica” per il litio e altre materie prime – come le terre rare – in un quadro normativo stringente per la sostenibilità della filiera e dell’industria e in un contesto di bollette energetiche non competitive. Non è un caso che la risposta della Commissione all’Inflation Reduction Act è resa urgente per la possibile emorragia industriale (nel caso degli investimenti delle batterie) anche per i costi dell’energia. Emblematico è il caso della gigafactory di Nortvolt pianificata in Germania, i cui colloqui per la fase operativa sono in stallo. Con gli “attuali prezzi dell’elettricità”, ha commentato l’Head of Strategy dell’azienda svedese, Nicolas F. Steinbacher, il progetto “non potrà decollare”.
Per molti produttori, la transizione ai veicoli elettrici – le cui vendite a livello globale nel 2022 sono cresciute del 36% rispetto all’anno precedente, secondo S&P – richiederà di entrare a gamba tesa nel mercato upstream, con acquisizioni e offtake agreements con le società minerarie. Tesla, Volkswagen, Stellantis hanno infatti raggiunto importanti accordi per assicurarsi le forniture di litio, cobalto e manganese, essenziali per la produzione di batterie. L’ultimo esempio in questa direzione è di General Motors: il colosso automotive americano ha deciso di investire ben 630 milioni di dollari nel più promettente deposito di litio statunitense in Nevada. Il sito di Tracker Pass, gestito da Lithium Americas, sarà operativo dal 2026 e potrà produrre carbonato di litio per 1 milione di veicoli elettrici all’anno.
Saranno probabilmente gli Oems (Original equipment manufacturers), dai produttori di batterie come le cinesi Catl e Byd ai colossi dell’auto, i principali attori nella corsa globale alle materie prime nei prossimi decenni. È la struttura stessa della supply chain, infatti, che impone a questi colossi di scendere a patti con la criticità di queste risorse. “È molto più semplice e veloce scalare la produzione di batterie – gigafactory – che quella mineraria”, ha commentato a Cnbn Simone Moores, ceo di Benchmark Minerals Intelligence. L’integrazione verticale, dalla miniera alla batteria, è l’unico modo per “poter produrre veicoli elettrici nei prossimi vent’anni” con successo, evitando clamorose débâcle.