Gli alleati transatlantici stanno lavorando su un nuovo gruppo di cooperazione internazionale per approvvigionarsi dei metalli e dei minerali necessari per la transizione. In controluce c’è Pechino e la sua presa saldissima a monte dell’industria cleantech
Bomba Wall Street Journal: i funzionari statunitensi ed europei starebbero discutendo su come creare un nuovo gruppo di alleati, con l’idea di cooperare sull’acquisto dei materiali critici – quelli necessari per le tecnologie che sottendono alla transizione ecologica, come le batterie per auto elettriche. Tramite questo “buyers club” gli Stati aderenti negozierebbero accordi commerciali tra di loro, per poi cercare di stringerne altri con Paesi terzi, fonti delle materie prime necessarie, per garantire la fornitura costante.
Stando al WSJ, “alti funzionari francesi e tedeschi hanno chiesto la formazione di un club dei minerali critici”. E il vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič ha evidenziato che l’approvvigionamento di minerali per la transizione è un problema troppo grande per essere gestito da un solo Paese. Dunque Usa e Ue potrebbero creare un insieme comune di standard ambientali e di investimento per l’estrazione di minerali critici, ha detto il funzionario. “Vogliamo avere un approccio globale alle materie prime critiche”, ha dichiarato, sottolineando che “la cooperazione con gli Stati Uniti sarebbe molto importante”.
Per Šefčovič, i benefici di questa operazione sarebbero molteplici. Anzitutto è un modo di guadagnare influenza in Africa, contrastando l’espansione di Russia e Cina. Ed è anche un sistema per avvicinare Kyiv (che possiede grandi riserve di minerali critici e terre rare) a Bruxelles. “Credo che l’Ucraina possa diventare la superpotenza dei materiali grezzi critici”, ha detto il funzionario al WSJ.
L’operazione è da leggere come una risposta allo strapotere cinese su tutta la filiera dei materiali critici per il cleantech. Pechino, già internamente ricca di minerali, domina la manifattura nei campi dell’eolico, del solare, delle batterie, degli elettrolizzatori e delle pompe di calore. E con la creazione di controlli sulle esportazioni nel comparto del solare, il Partito comunista cinese ha indicato che non si farebbe problemi a usare le tecnologie verdi come leva geopolitica (à la Vladimir Putin col gas) e ricattare i Paesi acquirenti sul campo della transizione. “Credo che la situazione dell’ultimo anno, per quanto riguarda la fornitura di combustibili fossili, ci abbia mostrato quanto sia pericolosa e costosa la dipendenza da un unico fornitore”, ha evidenziato Šefčovič.
La protezione della propria base industriale (in chiave green) è il motivo per cui l’Unione europea si muove affannosamente per rispondere alla pioggia di sussidi, sotto forma dell’Inflation Reduction Act, con cui il presidente Usa Joe Biden sta già imprimendo un’accelerazione all’industria cleantech statunitense. Ma come ha sottolineato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, dal palco di Davos, è necessario evitare un conflitto commerciale con gli alleati e cooperare contro chi, a forza di sussidi, erode da tempo l’industria occidentale: la Cina. Perché, in fin dei conti, è parecchio rischioso scommettere sulla transizione senza avere il controllo sulle materie prime e l’intera lunghezza della catene di produzione.
In quest’ottica, l’avvicinamento sulla diatriba tra alleati sta passando dalle materie prime, come ha indicato la segretaria al Tesoro Usa Janet Yellen. Questo comparto è un terreno attraverso cui le aziende europee dovrebbero poter accedere (almeno parzialmente) agli sgravi che gli Usa riservano solamente ai Paesi con i quali ha un accordo di libero scambio – Canada e Messico, per ora. Dunque questo “buyers club” è da intendersi come l’evoluzione del dialogo tra alleati, in cui rientrano anche altri Paesi dell’occidente geopolitico – Giappone e Corea del Sud in primis –, e possibilmente la base per un accordo di libero scambio che possa estendere la portata dell’Ira ai Paesi like-minded.