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Lo spettro della deindustrializzazione. Perché l’Ue perde terreno rispetto a Usa e Cina

Deindustrializzazione

Da una parte i sussidi per l’industria verde nordamericana. Dall’altra il rivale cinese, che da 20 anni sostiene l’economia con finanziamenti pubblici (e furto di proprietà intellettuale), mentre tiene il mercato chiuso agli occidentali. Nel mezzo l’Europa flagellata dal caro-energia, che costringe le aziende a chiudere (o delocalizzare) e minaccia lo sviluppo green e tech. Ritratto di un’emergenza sistemica

Oltre alle famiglie, il caro-energia sta asfissiando la competitività globale dell’industria europea. La crisi colpisce soprattutto i settori più energivori, costringendo moltissime aziende a ridurre la produzione, se non a chiudere del tutto. E secondo gli esperti rischia di durare anni. A livello nazionale si interviene con sussidi, a livello europeo si discute di contromisure (come il tetto al prezzo del gas), ma tutto questo rischia di non bastare. Specie se le due superpotenze economiche (Usa e Cina) mettono il turbo alle proprie industrie.

L’ultimo monito arriva dal produttore di auto più grande al mondo. Secondo Thomas Schäfer, nuovo Ceo della divisione automobili di Volkswagen Group, l’Unione europea sta già perdendo attrattività e competitività internazionale. “Se non riusciremo a ridurre i prezzi dell’energia in modo rapido e affidabile, gli investimenti in produzioni ad alta intensità energetica o in nuove fabbriche di celle per batterie in Germania e nell’Ue saranno essenzialmente impraticabili”, ha scritto su LinkedIn, avvertendo che in questo caso “la creazione di valore avverrà altrove”.

La vecchia Europa è alle prese con due fronti economici fondamentali. Il primo è quello con gli Stati Uniti, dove l’energia costa un quarto rispetto all’Ue e dove sta per entrare in vigore, con l’Inflation Reduction Act (cioè il Green Deal statunitense), un massiccio sistema di sovvenzioni per favorire le tecnologie verdi. 370 miliardi di dollari per incentivare il reshoring delle catene di produzione, tra cui quelle di energia rinnovabile, batterie e auto elettriche, in Nord America – Canada e Messico inclusi – ma non in Ue.

I funzionari di Bruxelles hanno accusato Washington di pratiche anticompetitive e promettono battaglia. Nel mentre già si pensa a come istituire sussidi europei per non rimanere fuori gara e convincere le aziende che pensano al trasloco a rimanere. Martedì il ministro dell’economia tedesco Robert Habeck ha dichiarato che i leader europei sono “in modalità emergenza” per proteggere le industrie di base dall’Inflation Reduction Act statunitense – con sussidi e sgravi fiscali, possibilmente legati ai prodotti locali. Per dirla come i francesi, “Buy European”. Persino l’iper-rigorista Germania teme lo spettro della deindustrializzazione. Che è alimentato anche da Oriente.

La Germania è sempre più conscia del pericolo rappresentato dall’altro grande concorrente, nonché rivale sistemico, che oltre a sussidiare le proprie industrie da decenni controlla anche le filiere del green tech: la Cina. A dispetto della tradizione mercantilista che ha portato il cancelliere Olaf Scholz e una delegazione di industriali a visitare il presidente Xi Jinping appena dopo la sua terza incoronazione, il governo tedesco “sta già dando priorità alle relazioni con altri Paesi, come l’India e il Giappone”, mentre le aziende “stanno rivalutando i rischi di fare affari in Cina e intensificando le loro attività in altri Paesi”, spiegava a Formiche.net  Mikko Huotari, il direttore esecutivo del centro studi tedesco Merics.

L’esempio perfetto è il mercato dell’auto, particolarmente caro ai tedeschi (e agli italiani). Come per altri settori, decenni di globalizzazione e outsourcing in Cina hanno permesso alle aziende locali di impossessarsi del know-how straniero e creare alternative domestiche ai grandi marchi stranieri. Grazie alla presa di Pechino sul comparto batterie e all’agilità delle giovanissime case cinesi, più rapide a convertirsi all’elettrico rispetto ai vecchi brand occidentali, le auto made in China arriveranno presto a coprire metà della quota di mercato locale – e il 30% di quella globale. Nemmeno l’ Europa fa eccezione: come spiegava Carlo Tritto (Transport & Environment) a Formiche.net, saranno cinesi il 9-18% dei veicoli elettrici “puri” venduti nel 2025.

Purtroppo, non vale l’inverso: per gli europei, e gli occidentali in generale, il mercato cinese è sempre meno accessibile. L’unica eccezione erano le tecnologie avanzate, fiore all’occhiello e vantaggio strategico dei Paesi occidentali, che però in questo ventennio hanno favorito l’ascesa dell’industria cinese e dunque sono diventate un boomerang. È per questo che gli Usa e l’Ue hanno limitato l’export dei prodotti più sofisticati (tra cui i microchip avanzati e i macchinari in grado di fabbricarli), ed è per questo che Washington preme sugli alleati europei per estendere la portata di queste misure: la filiera dei semiconduttori è un comparto tanto strategico quanto difficile da replicare.

Insomma, oggi l’Ue tenta di ribaltare un ventennio di globalizzazione. Che sul lato privato si è tradotta in outsourcing, dunque declino della produzione interna, e su quello pubblico si è tradotta nello scoraggiare la creazione di grandi campioni europei in grado di competere su scala globale. La congiuntura economica – caro-energia e concorrenti armati di sussidi protezionistici – stanno solo accelerando un declino industriale che si è già tradotto in perdita di autonomia strategica e un parziale deragliamento dei piani europei. E per tirarsi fuori da questo inghippo, Bruxelles si sta rendendo conto che occorrerà investire nelle industrie molto più del previsto.

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