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Meloni incontra Abiy Ahmed mentre l’Europa si riapproccia all’Etiopia

Meloni rilancia il Piano Mattei anche con l’Etiopia, dove le complessità delle crisi interne portano l’Europa a dover ragionare su progetti di cooperazione per lo sviluppo specifici. Per evitare di aiutare uno solo dei vari attori in gioco, spiega Lanfranchi (Clingendael)

“Abbiamo in programma nelle prossime settimane una missione in Etiopia: andremo io ed alcuni ministri del governo e vorremmo che fosse accompagnata anche da imprenditori italiani, ora individueremo la data e la organizzeremo in tempo rapido”, ha dichiarato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni annunciando la continuazione del dialogo avviato nell’incontro con l’omologo etiopico, Abiy Ahmed – ricevuto oggi, lunedì 6 febbraio, anche al Quirinale.

Addis Abeba vive una condizione difficilissima, con la situazione nel Tigray – oggetto di una feroce guerra tra il governo e le forze indipendentiste locali – è in un delicato equilibrio. Nel frattempo, altre situazioni interne – economiche, sociali, tecniche e culturali – sono state sensibilizzate dal conflitto stesso e dal peggioramento delle situazioni di vita che esso ha prodotto. Dopo due anni di conflitto nella regione, i bisogni di assistenza umanitaria rimangono urgenti.

Per esempio, in questi giorni il Comitato della Croce Rossa Internazionale ha annunciato di aver visionato nuove immagini e commentato che la distruzione delle strutture sanitarie, colpite dalle azioni delle forze governative e dei ribelli, è in una situazione “grave e diffusa”. La mancanza di assistenza sanitaria ha aggravato la gestione di nuove e pregresse situazioni mediche, creando una condizione di sofferenza anche psicologica (le persone temono di ammalarsi perché sanno che non potranno essere curate). Tutto in un Paese colpito dalla guerra.

Oromia, Afar, Amhara e Somali sono altre regioni del Paese in cui le condizioni generali sono in rapido peggioramento. Una situazione che apre all’acuirsi delle tensioni etniche e dunque a nuovi potenziali hotspot di conflitto. Il rischio è che le varie frustrazioni possano seguire l’esempio tigrino. Su tutti, in questo momento le tensioni in Oromia – la più grande delle regioni federali etiopiche, dove vive l’etnia oromo – è una delle situazioni più preoccupanti.

L’ultimo delicatissimo episodio è l’innesco di uno scisma interno alla Chiesa ortodossa dell’Etiopia. Il clero separatista ha accusa la Chiesa di utilizzare un sistema di egemonia linguistica e culturale che isola i fedeli dell’Oromia e di ricevere su questa linea un sostegno popolare molto ampio. Il Santo Sinodo guidato dal patriarca Abuna Mathias ha accusato sua volta il governo, guidato da un ortodosso oromo come Abiy Ahmed, di sostenere gli scissionisti in un’evoluzione delle polemiche che ci sono state con l’esecutivo dopo che il sinodo ha accusato i governativi di aver compiuto un“genocidio” in Tigray.

Si parla del rischio di implosione, di balcanizzazione. Effetti che avrebbero ricadute – vista la dimensione demografica, geografica ed economica dell’Etiopia – a livello continentale. Secondo le Nazioni Unite, la guerra, scoppiata nel novembre 2020, ha provocato oltre due milioni di sfollati e centinaia di migliaia di persone in condizioni di quasi fame. Secondo gli Stati Uniti, il bilancio delle vittime è di 500.000 persone.

È in questo quadro che secondo Guido Lanfranchi, ricercatore del Clingendael Institute dell’Aia, l’Unione europea può giocare un ruolo importante, aiutando il paese a stabilizzare un’economia in seria difficoltà e a ricostruire le aree distrutte dalla guerra per evitare nuove derive. “Allo stesso tempo, però, i politici europei devono assicurarsi che il supporto dell’Ue venga usato a beneficio dell’intera popolazione, e non di una fazione o di un’altra”.

“Anche se i combattimenti in Tigrai sono finiti – spiega a Formiche.net – l’Etiopia è ancora invischiata in un conflitto politico più ampio, che coinvolge il governo centrale ad Addis Abeba e vari movimenti politici e gruppi armati nelle regioni. In questo contesto, fornire sostegno diretto al bilancio del governo federale (come l’Ue faceva fino a prima della guerra) è rischioso, perché rafforza la posizione di uno degli attori del conflitto. Piuttosto, meglio supportare progetti di cooperazione allo sviluppo che coinvolgono anche altri attori, per esempio i governi regionali e realtà della società civile”.

Recentemente le ministre degli Esteri di Germania e Francia hanno viaggiato nella capitale etiope per incontrare Abiy Ahmed, ravvivando un dialogo tra Bruxelles e Addis Abeba raffreddato durante le fasi più violente della guerra, e mettendo in chiaro le condizioni per proseguire queste relazioni. L’incontro con Meloni, il secondo dopo quello nel contesto multilaterale della Cop27 di inizio novembre, segue questa scia.

Per l’Italia, inoltre, rientra nel flusso delle azioni di politica estera portate avanti nel vicinato del Mediterraneo allargato e segue le iniziativa nel Nordafrica, nei Balcani e in Turchia di cui si sono resi protagonisti i vari componenti del governo. Meloni ha infatti ricordato che la “profondità storica” dei legami italo-etiopi sarà ravvivata dallo “spirito di parternariato paritario nei confronti delle nazioni africane sulle quali stiamo dedicando le nostre energie, quel piano Mattei per l’Africa come cooperazione allo sviluppo che possa aiutare i paesi africani a crescere utilizzando al meglio le tante risorse di cui dispongono”.

L’interesse di carattere economico-commerciale e quello di tipo politico-securitario si fondono come in altri dossier. La complicata situazione in Etiopia può infatti aprire anche all’instaurarsi di flussi migratori in grado di raggiungere i rubinetti mediterranei, ma è anche un ambiente in cui la politica estera dell’Ue, e dunque anche quella dell’Italia, ha a che fare con il confronto geopolitico globale (che vede da un lato l’Occidente e dall’altro Russia e Cina).

C’è chi dice che l’Europa debba supportare direttamente il governo etiope – continua Lanfranchi – per evitare che cada nelle braccia di altri attori internazionali, soprattutto la Cina o la Russia. Una strategia di questo tipo può servire nel breve termine a farsi amico il governo in carica ad Addis Abeba, ma nel lungo termine rischia di esacerbare divisioni e conflitti nel secondo paese più popoloso d’Africa, qualcosa che non è certamente nell’interesse dell’Europa”. Ragion per cui serve un approccio ampio.

In questi giorni, il portavoce del dipartimento di Stato statunitense, Ned Price, ha dichiarato che Washington ha accolto positivamente l’incontro tra Abiy Ahmed e i leader del Fronte popolare di liberazione del Tigray – il primo dopo firma dell’accordo di pace di Pretoria, a novembre. “Abbiamo visto segni importanti tra le parti”, ha detto. Il governo etiope ha dichiarato di aver inviato anche 90 milioni di dollari alla capitale del Tigray, Mekele, per contribuire alla ripresa dei servizi bancari nel Paese. L’Ethiopian Airlines ha inoltre pianificato di aumentare il numero di voli verso la regione. Segnali del proseguimento delle distensioni.

Allo stesso tempo, l’ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite, Linda Thomas-Greenfield, ha dichiarato che le truppe eritree rimangono nella regione del Tigray, anche se si sono spostate verso il confine tra Etiopia ed Eritrea. Addis Abeba nega, i tigrini parlano di “migliaia” di truppe eritree restate nella loro regione. La disinformazione e l’alterazione dei fatti, sia da parte dei governativi che dei tigrini, è una degli aspetti caratterizzanti del conflitto. Asmara ha ritirato buona parte delle truppe – che sono state determinanti, anche per le loro brutalità, nella vittoria sui ribelli. Tuttavia alcuni reparti rimangono appena oltre confine e gli eritrei potrebbero avere intenzione di influenzare il processo politico di Addis Abeba. Un altro dei problemi di cui l’Italia ha consapevolezza quando si approccia al dossier Etiopia.


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