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La difesa del (buon) nazionalismo, che è diverso dal sovranismo. Parla Campi

Il politologo: “Giorgia Meloni ha avuto successo (e continua ad averlo) per molte ragioni. Non ultimo perché si è credibilmente intestata un patriottismo che gli altri attori politici continuano a rifiutare considerandolo anacronistico o incompatibile con l’europeismo che è un po’ diventata la religione ufficiale del nostro tempo. Un grave errore di giudizio, politico e storico, che ha dato a Meloni un grande vantaggio competitivo”

Oltre le barriere ideologiche. Tornando ai fondamentali, ai concetti sviluppati da Giuseppe Prezzolini, da Papini. I padri nobili di un’idea che man mano si è diffusa ed è diventata qualcosa di più. Considerare la Nazione non come un simulacro da confinare alla storia, ma come un concetto pregnante. Caro alla destra storica, ma che deve guidare anche quella attuale. Alessandro Campi, politologo e docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Perugia, ha da poco dato alle stampe “Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo” (Marsilio). Un libro che traccia una rotta e crea un collegamento che va però coltivato: dal passato all’oggi.

Nel suo ultimo libro “Il fantasma della nazione” lei consiglia di tornare ai fondamentali. Ai concetti resi manifesti da Prezzolini e cari alla destra storica. Che senso ha, secondo lei, in un’epoca post-ideologica?

Nel libro non propongo un ritorno meccanico al passato. Sarebbe scolastico e improduttivo. Ma il modo con cui l’idea di nazione è stata concepita, elaborata e tradotta in pratica in età risorgimentale resta per molti versi una lezione alla quale guardare. C’era nei padri-profeti risorgimentali una forte componente retorico-idealistica, c’era molta pedagogia a tinte paternalistiche, ma c’era anche una visione dello stare insieme, dell’Italia e degli italiani, rivolta al futuro e declinata in una chiave pragmatica. E infatti sono riusciti a unificare un Paese che per secoli era rimasto diviso. Della posizione di Prezzolini, che pure è stato (insieme a Papini) uno degli alfieri del nazionalismo nei primissimi anni del Novecento, mi ha colpito la sua critica – alla vigilia della Prima guerra mondiale – alla piega che aveva preso nel frattempo il movimento nazionalista: divenuto sempre più aggressivo e guerrafondaio, nonché intriso di una insopportabile prosopopea sulla missione dell’Italia del mondo, sulla civiltà millenaria dell’Italia, ecc., tipica di una tradizione più letteraria che politica (d’Annunzio, Corradini).

Quella di Prezzolini era anche un’autocritica, interessante ancora oggi: la nazione, secondo lui, è una costruzione politica razionale, che non può vivere solo di belle parole e di richiami enfatici al passato. Servono istituzioni funzionanti che la facciano funzionare, un forte senso della Stato, una cultura dei doveri diffusa, non basta agitare il tricolore nelle occasioni pubbliche. Anche questa mi sembra una lezione valida per l’oggi.

Qualche anno fa il filosofo Yoram Hazony ha teorizzato e descritto le virtù del nazionalismo. Nel nostro Paese, tuttavia, c’è confusione: nazionalismo spesso è associato a fascismo. Riusciremo a superare questo ostacolo culturale?

La nazione e il nazionalismo godono effettivamente di cattiva stampa, anche in ambito scientifico. A furia di sostenere che si stratta di costrutti politico-culturali tipicamente moderni ci si è anche convinti che si tratta di prodotti artificiali e contingenti destinati inevitabilmente a sparire dalla scena storica e facilmente fungibili (anche se non si è ancora capito con che cosa). Salvo ogni volta doversi sorprendere per la capacità di resistenza che il sentimento nazionale dimostra specie nei tornanti difficili della storia.

A cosa si riferisce?

È un secolo che si annuncia la fine delle nazioni. L’interpretazione diffusa vuole che al nazionalismo (cattivo in sé) si debbano imputare due guerre mondiali rovinose. Forse conviene ricordare che entrambe, la prima e la seconda, son state guerre tra potenze imperiali, tra aggregazioni di potenza che ambivano al potere globale. L’idea di impero, sul piano logico-politico, non è una nazione più grande, ma il contrario del principio nazionale. Il caso del fascismo mi sembra interessante. È stato nazionalista? Certo, si è appropriato monopolisticamente del sentimento patriottico, sino a farlo coincidere con l’ideologia ufficiale del regime trasformandolo nel suo contrario: non in un concetto che unifica, ma che discrimina tra i membri della stessa comunità.

In che senso?

Nel senso che si era italiani solo se si era fascisti. Ma è anche vero però – nell’interpretazione forse paradossale che propongo nel libro – che i due veri assi ideologici del fascismo, più che l’idea di nazione, sono stati l’idea di Impero (il fascismo come fenomeno europeo e come forma di civiltà esportabile nel modo) e quella di Stato (senza il quale la nazione non è altro che un agglomerato privo di anima, priva di vita autonoma). Insomma. Il fascismo al dunque è stato anti-nazionale. Non parliamo poi del nazismo: i razzisti sono per definizione uniti da un’appartenenza, quella appunto biologica e di sangue, che travalica i confini culturali nazionali. Per Hitler la nazione era un residuo ideologico piccolo-borghese, la negazione del Reich sovranazionale a guida ariana che aveva in testa. Aggiungo che questo pseudo-europeismo anti-nazionale nel secondo dopoguerra ha molto attecchito nelle culture della destra soprattutto giovanile, quella ad esempio che in Italia ha avuto rappresentanti quali Julius Evola o Adriano Romualdi. Anche per questo tipo di destra la nazione era un anacronismo. Loro guardavano all’impero dello spirito (il primo) o all’Europa bianca fortezza dell’anticomunismo (il secondo).

Nell’esercitare il suo ruolo di presidente del Consiglio, specie all’estero, Meloni si rifà spesso a grandi italiani del passato: il piano Mattei in questo senso è emblematico. Un modo per affermare l’identità nazionale anche fuori dai confini italiani?

Giorgia Meloni ha avuto successo (e continua ad averlo) per molte ragioni. Non ultimo perché si è credibilmente intestata un patriottismo che gli altri attori politici continuano a rifiutare considerandolo anacronistico o incompatibile con l’europeismo che è un po’ diventata la religione ufficiale del nostro tempo. Un grave errore di giudizio, politico e storico, che ha dato a Meloni un grande vantaggio competitivo. Non ci si è resi conto evidentemente – dopo anni di euforia post-nazionalista – come è cambiato il vento della storia. Nel libro parto proprio dall’attualità storica per dimostrarlo. La guerra che l’Ucraina combatte (e che noi sosteniamo) ha una radice essenzialmente nazionalistica. La pandemia a sua volta ha comportato ovunque il risveglio di un senso dell’appartenenza e della solidarietà in chiave nazionale che peraltro è sempre stato più forte di quanto certi politici o intellettuali credano (la pandemia l’ha risvegliato). Ovunque nel mondo sale inoltre – come reazione alla globalizzazione – la richiesta di autonomia e indipendenza in chiave nazionale. Come si fa a trascurare questi segnali? Dopo di che la traduzione politica del patriottismo offerto da Giorgia Meloni (basta leggere il suo fortunatissimo libro autobiografico) secondo me è ancor un po’ troppo oscillante.

Perché?

C’è molta retorica sulle radici comuni, sulla memoria condivisa, sull’unità di lingua, cultura, tradizioni e costumi, trascurando così il fatto che gli l’Italia di oggi deve fare i conti con la presenza entro i suoi confini di persone che provengono sempre più da altre culture e tradizioni e che nonostante ciò possono e debbono essere inglobate entro uno spazio politico comune. Ma come si fa senza limitarsi al solo rispetto delle regole, riducendo così l’appartenenza nazionale ad un dato meramente formale (il passaporto e la cittadinanza)? È un bel tema, sul quale Meloni e la destra dovrebbero interrogarsi di più, ma sul quale forse dovrebbero interrogarsi tutti. Al tempo stesso, leggendo il suo libro e i suoi interventi, trovo interessante il tentativo fatto da Giorgia Meloni di legare la nazione alla democrazia e alla libertà. Un tema spesso trascurato dai critici del nazionalismo e che credo le venga dalla lettura del filosofo britannico Roger Scruton. Le democrazie sono storicamente nazionali e funzionano solo se esiste un sentimento di lealtà appunto nazionale che le sostiene.

Come far convivere, in un mondo e in una politica che proietta sempre di più verso l’estero il potere (anche decisionale) un’idea di nazione forte?

Non credo si tratti di affermare all’estero l’identità nazionale italiana, ma una visione dell’Italia come portatrice di suoi specifici interessi, che è giusto difendere. Che è esattamente quel che si chiede a chi governa uno Stato. In questo ci sta anche il richiamo ad esempi e figure del passato: serve, se non altro, a indicare una continuità nelle scelte che specie in politica estera sono un tratto qualificante, non tanto dell’identità, ma della serietà e riconoscibilità di un Paese.

Non intravede il rischio, se si rimarcano troppo certi concetti cari al Novecento, di essere anacronistici e ingenerare tensioni con altri partner sovranazionali?

Sul richiamo a Mattei e su un nuovo piano per l’Africa si è un po’ ironizzato, c’è stata della supponenza. In verità mi sembra un grande tema. In Africa – nel frattempo colonizzata dalla Cina – si gioca molto del destino dell’Europa dall’immigrazione alla questione energetica. L’idea di stringere nuove e più incisive forme di collaborazione con questa parte strategica di mondo mi sembra molto sensata. E l’Italia, per ragioni geografiche, non può che essere in prima fila sul piano della proposta politico-diplomatica. Come già nel recente passato. Se poi vogliamo buttarla in vacca richiamando le guerre d’Africa del fascismo, o in tragedia richiamando l’epopea colonialista, beh, possiamo farlo per amore di polemica. Ma a me l’idea di un nuovo Piano Mattei non dispiace, salvo ovviamente doverlo ora riempire di contenuti. Quello che vediamo è un mondo globalizzato nel quale però le appartenenze nazional-statuali e il particolarismo territoriali sono tutt’altro che scomparsi. Il superamento tanto auspicato da alcuni della sovranità politica statuale ha significato in molti casi lasciare campo libero alla sovranità extra-politica e priva di qualunque legittimazione dal basso, diciamo pure allo strapotere economico-finanziario, delle grandi corporations multinazionali attive nei campi più diversi (dalla farmaceutica all’high tech), divenute sempre più padrone della nostra vita.

La nazione ha quindi ancora senso come formula?

Sì, come via politico-istituzionale intermedia fra il troppo piccolo e il troppo grande, tra il localismo territoriale delle piccole patrie e il mondo senza confine che alcuni vagheggiano. Ha ancora grande utilità storica. Non vedo il pericolo d’anacronismo. Viviamo in un mondo pluralistico, ancora diviso in nazioni e Stati interessati a mantenere la loro integrità e specificità. Non è detto che questo debba per forza generare conflitti e divisioni mortali. La competizione, legittima e fisiologica, non esclude la cooperazione. L’unione europea, al di là della sua rappresentazione spesso enfatica e fuorviante, ne offre un buon esempio.

Il nazionalismo è un antidoto al populismo?

Nel libro definisco il populismo come il nazionalismo dei popoli stanchi. Lo vedo non come una ideologia, ma come una mentalità difensiva. Il sovranismo, al di là della posa aggressiva, implica un atteggiamento di chiusura nei confronti del mondo esterno considerato come una minaccia alla propria integrità. Diciamo che la mia è una difesa del nazionalismo (quello buono, non quello messo facilmente in caricatura dai suoi avversari) contro il sovranismo.



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