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Il papa ci obbliga a vedere la crudeltà. Il suo colloquio africano su Civ Catt

Il papa ne ha parlato con i gesuiti che operano in Congo e Sud Sudan durante il suo recente viaggio africano, un viaggio che ci ha interessato molto poco nonostante la sua rilevanza politica, strategica, di visione per l’Europa e per l’Africa

Un anno dopo la tentata invasione russa dell’Ucraina la parola “crudeltà” irrompe nella discussione pubblica sulla guerra, grazie a Francesco. Il papa ne ha parlato con i gesuiti che operano in Congo e Sud Sudan durante il suo recente viaggio africano, un viaggio che ci ha interessato molto poco nonostante la sua rilevanza politica, strategica, di visione per l’Europa e per l’Africa. E anche per l’orrore della crudeltà che unisce quelle terre al cuore dell’Europa, tanto da obbligarci a domandarci perché sia rimossa, questa mostruosa crudeltà che ci circonda. Il testo della conversazione di papa Francesco appare integrale sul sito de La Civiltà Cattolica.

Chi osi soffermarsi sulla rimozione della crudeltà non potrà non vedere non solo i gruppi ufficialmente terroristi, non solo le milizie, come la Wagner assoldata da Mosca, o gli aguzzini che gestiscono i campi di internamento dei profughi in tutto il Nord Africa, ma anche i nostri racconti, pacifisti o bellicisti, che al massimo in questo ultimo anno si sono soffermati sulla “crudeltà dell’altro”, il modo più astuto ma anche più ingiusto per sorvolare sulla nostra, o dei “nostri”. Anche le vittime possono diventare crudeli?

Il passaggio sulla crudeltà colpisce per la sua rimozione dal dibattito ormai lungo anno. Il papa in Congo al riguardo ha detto: “Certo, è chiaro che qui è forte il tema del conflitto, delle lotte tra fazioni. Ma apriamo gli occhi sul mondo: tutto il mondo è in guerra! La Siria vive una guerra da 12 anni, e poi lo Yemen, il Myanmar con il dramma dei rohingya. Anche in America Latina ci sono tensioni e conflitti. E poi questa guerra in Ucraina. Tutto il mondo è in guerra, ricordiamocelo bene. Ma io mi domando: l’umanità avrà il coraggio, la forza o persino l’opportunità di tornare indietro? Si va avanti, avanti, avanti verso il baratro. Non so: è una domanda che io mi faccio. Mi dispiace dirlo, ma sono un po’ pessimista. Oggi davvero sembra che il problema principale sia la produzione di armi. C’è ancora tanta fame nel mondo e noi continuiamo a fabbricare le armi. È difficile tornare indietro da questa catastrofe. E non parliamo delle armi atomiche! Credo ancora in un lavoro di persuasione. Noi cristiani dobbiamo pregare tanto: ‘Signore, abbi pietà di noi!’. In questi giorni mi colpiscono i racconti delle violenze. Mi colpisce soprattutto la crudeltà. Le notizie che vengono dalle guerre che ci sono nel mondo ci parlano di una crudeltà persino difficile da pensare. Non solo si uccide, ma lo si fa crudelmente. Per me questa è una cosa nuova. Mi dà da pensare. Anche le notizie che arrivano dall’Ucraina ci parlano di crudeltà. E qui in Congo lo abbiamo ascoltato dalle testimonianze dirette delle vittime”.

Il pessimismo tendenziale emergerà anche dalla nostra indisponibilità a guardare in faccia la crudeltà? Viene da chiedersi se la nostra pretesa di estirpare il male rappresentato o incarnato dall’altro non possa portarci fino a percepire la crudeltà come una legittima necessità. Ecco allora la domanda: “L’umanità avrà il coraggio, la forza o persino l’opportunità di tornare indietro?”. Ragionando come ragionava Pol Pot la risposta è certamente negativa.

Il testo è importante per molti altri passaggi. Cercando di scegliere in modo sbrigativo sottolineo che è molto importante quanto ha detto sulla sua “carriera”: un gesuita non dovrebbe farne, per voto. Cosa è successo? A questa domanda ha risposta così: “Quando ho fatto quel voto l’ho fatto sul serio. Quando mi hanno proposto di essere vescovo ausiliare di San Miguel, io non ho accettato. Poi mi è stato chiesto di essere vescovo di una zona al Nord dell’Argentina, nella provincia di Corrientes. Il Nunzio, per incoraggiarmi ad accettare, mi disse che lì c’erano le rovine del passato dei gesuiti. Io ho risposto che non volevo essere guardiano delle rovine, e ho rifiutato. Ho rifiutato queste due richieste per il voto fatto. La terza volta è venuto il Nunzio, ma già con l’autorizzazione firmata dal Preposito generale, il p. Kolvenbach, che aveva acconsentito al fatto che io accettassi. Era come ausiliare di Buenos Aires. Per questo ho accettato in spirito di obbedienza. Poi sono stato nominato arcivescovo coadiutore della mia città, e nel 2001 cardinale. Nell’ultimo conclave sono venuto con una valigetta piccola per tornare subito in diocesi, ma sono dovuto rimanere. Io credo nella singolarità gesuita circa questo voto, e ho fatto il possibile per non accettare l’episcopato”.

Questo punto non poteva che portare la discussione sul tema delle dimissioni, che Francesco ha risolto dicendo che lui non pensa a dimettersi se non per impedimento, ricordando che il ministero dei grandi patriarchi è sempre a vita. Ma se questo ci porta sulla nostra attualità – basata sul chiacchiericcio – la sua visione, soprattutto ecclesiale, emerge più chiaramente lì dove ha risposto alla richiesta di chiarire perché gli piaccia il rito congolese (famoso per le danze tradizionali): “Il rito congolese mi piace, perché è un’opera d’arte, un capolavoro liturgico e poetico. È stato fatto con senso ecclesiale e con senso estetico. Non è un adattamento, ma una realtà poetica, creativa, per essere significativo e adeguato alla realtà congolese. Per questo sì, mi piace e mi dà gioia. La Chiesa come ospedale da campo. Per me la Chiesa ha la vocazione dell’ospedale, del servizio per la cura, la guarigione e la vita. Una delle cose più brutte della Chiesa è l’autoritarismo, che poi è uno specchio della società ferita dalla mondanità e dalla corruzione. E la vocazione della Chiesa è alla gente ferita. Oggi questa immagine è ancora più valida, considerando lo scenario di guerra che stiamo vivendo. La Chiesa deve essere un ospedale che va dove c’è gente ferita. La Chiesa non è una multinazionale della spiritualità. Guardate i santi! Curare, prendersi cura delle ferite che il mondo vive! Servite la gente! La parola “servire” è molto ignaziana. ‘In tutto amare e servire’ è il motto ignaziano. Voglio una Chiesa del servizio”.

Infine un punto molto rilevante della conversazione che ha avuto in Sud Sudan con i gesuiti che incontrato lì: “Quando il mondo pensa all’Africa, pensa che, in un modo o nell’altro, essa vada sfruttata. Si tratta di un meccanismo inconscio collettivo: l’Africa va sfruttata. No, l’Africa deve crescere. Sì, i Paesi del Continente hanno ottenuto l’indipendenza, ma dal suolo in su, non sulle ricchezze che sono sotto. Su questo tema lo scorso novembre ho avuto un incontro con studenti africani in videoconferenza per quasi un’ora e mezza. Sono rimasto meravigliato dall’intelligenza di queste ragazze e ragazzi. Mi è molto piaciuto il loro modo di ragionare. Ecco, l’Africa ha bisogno di politici che siano persone così: bravi, intelligenti, che facciano crescere i loro Paesi. Politici che non si lascino traviare dalla corruzione, soprattutto. La corruzione politica non lascia spazio alla crescita del Paese, lo distrugge. A me colpisce il cuore. Non si possono servire due padroni; nel Vangelo questo è chiaro. O si serve Dio o si serve il denaro. Interessante che non dica il demonio, ma il denaro. Bisogna formare politici onesti. È anche il vostro compito”.



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