Parlamento e governo, partiti, istituzioni educative e culturali, imprese, media, comunità di fede religiosa quanto fanno di concreto per aiutare la rifondazione dei partiti perché siano meno feudi personali e sempre più mediatori qualificati e probi di politica nazionale e locale? La riflessione di Rocco D’Ambrosio, presbitero della diocesi di Bari, ordinario di Filosofia Politica nella facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma
Le elezioni ultime riaprono il dibattito sui partiti. Andrea Cangini (qui) ha spiegato come, tra le tante “indicazioni” provenienti dalle elezioni di domenica scorsa, c’è quella su “risultato peggiore ottenuto dai partiti meno strutturati; i partiti ‘nuovi’, quelli affidati al carisma del leader”. Concordo e offro alcune personalissime osservazioni.
La grande domanda è: i partiti sono in agonia o, ormai, “trapassati”? Dalla dissoluzione dei grandi partiti – come la Dc, il Pci e il Psi per citare i maggiori – le formazioni politiche sono entrate in una crisi che le ha portate ad essere poco rappresentative del Paese reale, scarsamente capaci di elaborare programmi di spessore e frequentemente irretite da corruzione e criminalità organizzata. I partiti italiani sono al lumicino perché hanno smesso di fare politica, di formarsi ad essa e hanno adorato il dio minore del consenso per conquistare il dio maggiore del potere (e spesso degli interessi illeciti). Per conservare consenso e potere viaggiano su un treno dove i binari sono: il leader che buca il video, spesso con colpi bassi e populisti, e la capacità mediatica, che deve far pensare poco e agire solo come fabbrica di voti. La cosiddetta “fine delle ideologie” sembra aver suggellato questa povertà culturale e strategica, consegnando diversi partiti europei a questa deriva.
Non a caso la maggior parte dei nuovi partiti e movimenti sono nati con programmi limitati e spesso con visioni molto ristrette riguardo alla società e ai suoi problemi. La politica è officina di idee e progetti, amministrazione di risorse, cose tutte da finalizzare al bene pubblico, di tutte le persone e di tutti i gruppi. Questo lo sappiamo: ce lo insegna la Costituzione, la fede cristiana per chi ci crede. Tuttavia vince la ricerca ossessiva del consenso, la potenza mediatica scorretta, l’ambiguità su temi (per es: corruzione e mafie, migranti e accoglienza, sicurezza e benessere sociale diffuso), il potere che privilegia la “propria famiglia”.
La classe politica comunale, in media, penso che sia migliore di quella nazionale. I partiti nazionali sono per lo più lontani dal Paese e ripiegati su sé stessi. La frattura è ben acuita e sigillata da una legge elettorale anticostituzionale per cui poche persone (i cosiddetti leader, i cui nomi hanno spesso affiancato i simboli dei partiti) “nominano” il Parlamento, determinano le scelte di un Paese, dettano la linea politica e mortificano l’opposizione interna. Le Regioni, sono a metà del guado, spesso operano con lo stile dei partiti nazionali, alcune volte invece sembrano autenticamente radicate nel territorio.
I nuovi partiti, che dovevano proporre un nuovo modello di aggregazione e, quindi, di rappresentanza politica, come il partito-azienda di Berlusconi, la Lega di Bossi e Salvini, il movimento di Grillo e dei Casaleggio, sono entrati in crisi per carenza di democraticità interna, leadership invasive e populiste, creazioni di corti, centralizzazione delle scelte. Non basta un presunto leader per fare un partito, né TV e social schierati. E la tristezza è che gli altri partiti, chi più chi meno, invece di combattere queste derive le hanno imitate.
Che fare, allora, “chiudere” i partiti? Non è possibile. Sono organismi intermedi, necessari e indispensabili. La Costituzione afferma: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49). Si tratta invece, per alcuni aspetti di ritornare al passato. Mi spiego: non a nostalgie fuori tempo (come quella di alcuni cattolici per la Dc e di alcuni di sinistra per il Pc o Psi), né tantomeno a quelle ideologie superate; ma rinsaldare gli elementi teorico-politici che fondano l’essere di sinistra o di destra. Dalla teoria, poi, far derivare elementi indispensabili quali: il tesseramento reale e legale; la scelta del leader con tesi congressuali e voto assembleare; riapertura di sedi a ogni livello (la politica non si può discutere solo in TV, perché questa non permette la partecipazione attiva dei cittadini al dibattito); moltiplicazioni di veri dibattiti e congressi locali, non pilotati da feudatari, ma come momento di ascolto vero della base; votazioni ed elezioni interne (fisiche non su piattaforma, per giunta non certificata); strumenti di controllo politico ed etico su chi sbaglia gravemente; disciplina rigida e applicata a tutti gli aderenti; centri studi e gruppi di elaborazione politica, per studiare di più e presenziare meno i social; capacità di stare nell’opposizione interna e costruire, senza uscire per fondare l’ennesimo partitino (vedi vicenda “terzo polo” o varie sigle della sinistra che continuano a frantumarsi).
Pd e FdI hanno un dna più consono per realizzare tutto ciò? Lo hanno altri? Lo dimostrino! Intanto ci mancano partiti di questo tipo. Se ci fossero forse avremmo più fiducia nei politici e più partecipazione al voto e al resto.
La presidente Meloni ha affermato che il voto di domenica è “un importante e significativo risultato che consolida la compattezza del centrodestra e rafforza il lavoro del governo” (Ansa, 14.2.23). Lo può essere se ha solo votato il 40% degli aventi diritto? Ho i miei fortissimi dubbi.
Parlamento e governo, partiti, istituzioni educative e culturali, imprese, media, comunità di fede religiosa quanto fanno di concreto per aiutare la rifondazione dei partiti perché siano meno feudi personali e sempre più mediatori qualificati e probi di politica nazionale e locale?