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Tatarella ritorna con il presidenzialismo. La versione di Malgieri

Di Pinuccio Tatarella, presidenzialista ante litteram, sembra ci si sia dimenticati proprio in relazione ad una battaglia politica che con passione ed intelligenza combatté con giornali, riviste, in piazza e in Parlamento fino alla prematura morte. Il ricordo di Gennaro Malgieri

Si riparla di presidenzialismo. Difficilmente sarà la volta buona per introdurlo nel nostro sistema costituzionale, visto il clima generale che caratterizza anche la maggioranza che dovrebbe sostenerlo. Non tutti infatti, a parte Fratelli d’Italia, sembrano spingere sull’acceleratore della riforma e questo la dice lunga circa la coesione di una coalizione che continua a mostrarsi come un cartello elettorale piuttosto che un polo coeso e proiettato verso una visione comune riformista.

Stranamente, nell’ambito del rinnovato dibattito sul presidenzialismo, si ricorda poco (per fortuna qualche eccezione c’è) chi, in un passato ormai lontano, molto si spese in favore della Repubblica presidenziale (e non mi riferisco ai Costamagna, agli Almirante, ai Pacciardi, perfino ai Craxi) e questo la dice lunga sulla memoria corta del centrodestra ed in particolare della destra-destra. Insomma di Pinuccio Tatarella, presidenzialista ante litteram, sembra ci si sia dimenticati proprio in relazione ad una battaglia politica che con passione ed intelligenza combatté con giornali, riviste, in piazza e in Parlamento fino alla prematura morte.

Tatarella se ne andò l’8 febbraio 1999, come faceva di solito, senza avvertirci. Ma, a differenza delle altre volte, sapevamo che non sarebbe ritornato all’improvviso, nel bel mezzo di una riunione o addirittura alla fine. Non si congedò da nessuno e a nessuno aveva detto che forse non si sarebbe più fatto vedere. Lo incontrai l’ultima volta pochi giorni prima che si sottoponesse al delicatissimo intervento chirurgico, del quale, naturalmente, non parlammo neppure fugacemente. Ci concedemmo un “temerario” fuori-pasto (la sua adorata torta di “Giolitti”) e poi, con un paio di amici, ce ne andammo a fare shopping: non comprammo nulla, tranne il sottoscritto che da lui fu indotto ad acquistare un pullover rosso come quello che indossava. Programmammo, invece, girovagando più tra le idee che per le strade di Roma, iniziative che avrebbero dovuto avere una qualche ambizione a supporto di svolte che Pinuccio giudicava imminenti.

Il dolore di una mattina di febbraio, lancinante come una lama conficcata nel fianco, si portò via idee e propositi. Una telefonata, un disperato sguardo sul vuoto. Da allora un’infinità di volte ne ho avvertito la mancanza. E come me tanti altri che attraverso Tatarella, tra l’altro, si legarono al presidenzialismo come ad una ragione vitale. È quasi sempre vero, ma da quando non c’è più Tatarella è ancora più vero: insomma negli ultimi ventiquattro anni ci siamo sentiti più soli. Un po’ perché abbiamo perso un caro amico; ancora di più perché alla politica è venuto a mancare un interprete appassionato ed intelligente, moderatore del dibattito non soltanto in casa nostra, in quel suo/nostro partito che volle così fortemente, ma anche nella più complessiva società politica nella quale era interlocutore di avversari che sapevano di trovare in lui un referente affidabile nelle stagioni più complicate. Conoscendolo ci sembrava strano che taluni avessero potuto definirlo “ministro dell’Armonia”, ma non v’è dubbio che Tatarella abbia sempre agito per smussare gli angoli, per dirimere le controversie, per far convergere intorno ad un interesse reale le contrapposte posizioni, nonostante il suo carattere non proprio, per altri versi, accomodante: un mistero.

Queste caratteristiche le doveva ad una concezione della politica come conciliazione degli opposti alla quale in tanti contrappongono, purtroppo, una tendenza “muscolare”, quasi che le scelte e le decisioni riguardanti la comunità debbano necessariamente dividere, insanabilmente.

Certo, gli piaceva vincere, ma non a costo di umiliare gli avversari, un po’ per l’innata umanità che lo proteggeva dall’arroganza; un po’ per l’intelligenza che gli faceva riconoscere il limite che non poteva valicare. E da politico raffinato qual era, cercava quindi di prevalere con l’intelligenza, esercitando l’arte della persuasione. Si reputava un elemento di equilibrio in stridente contrasto con la sua esuberante personalità che, senza nessun riguardo ai ruoli che rivestiva, esprimeva in maniera spontanea, assolutamente fuori dai canoni della cosiddetta rispettabilità borghese. Pinuccio era un ragazzo di sessant’anni, insomma, che viveva la sua stagione tra entusiasmi e malinconie, con il cuore incline alle passioni e la mente aperta a recepire tutto ciò che di culturalmente attraente gli capitava a tiro. Fedele alle amicizie, lo irritavano i tradimenti. E la superficialità, le adulazioni, le meschinità lo deprimevano.

Non sbiadiscono, con il passare del tempo le immagini di quei giorni di fine Novantatré quando cominciò a nascere il partito nuovo, quello che sarebbe stato Alleanza nazionale. L’attivismo di Pinuccio era febbrile; l’aria politica si andava arricchendo di odori nuovi; le parole che si coglievano erano nel senso di novità ancora imprecisate. Ci ritrovammo con Pinuccio, in una mattina d’autunno, nella sede del Sindacato libero scrittori di Roma, ospiti dell’indimenticabile Francesco Grisi, in poco più di trenta amici, meno uno che morì per strada mentre stava raggiungendoci: Umberto Moscato, giovane tra i più colti e promettenti che Tatarella aveva “pescato” nella covata montanelliana. E lì cominciammo a ragionare sul “nuovo” a Destra che non poteva essere come il “nuovo” a Sinistra.

Riunioni su riunioni, pensieri e parole che si confusero nei mesi successivi con emozioni e passioni. Tatarella era dappertutto. E noi con difficoltà riuscivamo a stargli dietro: il presidenzialismo, grande “mito” della sua vita, lo portava ovunque c’era gente disposta ad ascoltarlo. Fece anche un giornale: “Repubblica presidenziale”, tanto per evitare gli equivoci. La nuova Destra che andava prendendo forma assomigliava molto alle idee di Tatarella. E, certamente, ancor più sarebbe stata a lui affine se soltanto avesse avuto il tempo di reinventarla come “motore” del cambiamento del sistema.

Coerente con la sua visione dei mutamenti politici le idee, Tatarella riteneva che sbarazzarsi del vecchiume senza gettare via la spiritualità che aveva motivato intere generazioni nel darsi alla politica era la sola possibilità che la Destra avesse per contribuire a realizzare scenari sui quali proiettare modelli organizzativi e sperimentare innovazioni. Per quanto non lo desse a vedere in maniera plateale, a chi gli stava più vicino non sfuggiva, insomma, che la politica delle idee era il suo “gioco” preferito. Lo annoiavano mortalmente le discussioni attorno alla politica politicante, alle tattiche prive di strategia, al piccolo cabotaggio.

E a tutto questo, quando non vi si poteva sottrarre, si dedicava con la gioiosa attitudine di chi si applica, con intelligenza e caparbietà, a raggiungere scopi immediati sapendo che questi non avrebbero comunque appagato la sua avidità di comprendere e in qualche modo di tentare percorsi inediti.

La politica era davvero una “guerra” di idee e lui voluttuosamente vi si immergeva. Ricordo che nel 1996, subito dopo la vittoria storica di Aznar in Spagna, che demolì il Partito socialista, riuscì ad organizzare a Bari, coinvolgendomi senza possibilità di replica, in meno di ventiquattr’ore, un convegno nel quale discutere delle prospettive del centrodestra in Europa, anticipando una tendenza che si sarebbe affermata nei mesi e negli anni successivi: la crisi delle socialdemocrazie e l’avvento di una nuova Destra.

Ma “giocando” con le idee, gli capitò di innamorarsi e diffondere il “contagio” anche negli ambienti a lui contigui, per il pensiero di don Luigi Sturzo e per la figura di Giuseppe Di Vittorio.

Se al grande sindacalista comunista aveva sempre guardato con ammirazione perché suo compaesano di Cerignola, ma anche perché aveva militato nelle file del sindacalismo rivoluzionario di Filippo Corridoni ed era stato fautore dell’intervento nella prima guerra mondiale, fedele alla lezione di Georges Sorel, al sacerdote di Caltagirone si avvicinò affascinato dalle intuizioni di questi in merito alla crisi dei sistemi rappresentativi ed alle loro degenerazioni partitocratiche denunciate con grande coraggio intellettuale e politico agli inizi degli anni Cinquanta: lo stesso coraggio testimoniato nell’opporsi al fascismo fino a costringerlo all’esilio.

Amava le idee e s’innamorava delle eresie. Tatarella era un lievito, insomma, non soltanto della politica della Destra. Avversari autorevoli si confrontavano con lui spesso e volentieri non perché avesse capacità manovriere indispensabili nella vita parlamentare, e tutt’altro che disdicevoli (lasciamole alle anime belle queste facezie populiste), ma perché riuscivano a scorgere dietro le sue parole (e spesso anche nei suoi eloquenti silenzi) piani d’azione concreti improntati a un essenziale e fattivo confronto che lasciava spazio alla mediazione.

Il semipresidenzialismo che venne fuori dai lavori della Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali presieduta da Massimo D’Alema, porta indiscutibilmente la sua impronta. Lo fece digerire ai più riottosi, trovando nel leader post-comunista un interlocutore di spessore culturale e dalla capacità si smarcarsi dallo stordimento dei pigri per i quali la politica dovrebbe essere sempre uguale a se stessa. Qualità che, non soltanto in quella fase politica, lo facevano discutere con Luciano Violante allora presidente della Camera, ma suo amico-avversario fin dai tempi della frequentazione della Facoltà di Giurisprudenza a Bari.

Il confronto lo eccitava, gli dava quasi un piacere fisico. Lo coglievo quando frettolosamente e disordinatamente impostavamo i numeri di “Repubblica presidenziale” o nei viaggi lungo la Penisola per diffondere la consapevolezza di una politica nuova, oltre i vecchi schemi. Su quel giornale, tra l’altro, Tatarella propose i temi della democrazia diretta con efficacia persuasiva, contribuendo ad avvicinare tanti a quella che per lui era una battaglia di principio; mentre su “Puglia tradizione” raccoglieva il meglio di una cultura meridionale che si voleva di retroguardia e che invece era viva e ricca di spunti modernissimi e su “Centrodestra”, invece, si esercitava in quella che possiamo definire una sorta di “profezia”, vale a dire la prefigurazione di un movimento capace di andare “oltre il Polo” che voleva dire sostanzialmente, “allargare la coalizione di centrodestra ai soggetti che, pur non volendo la vittoria della sinistra, non sono ancora impegnati con i partiti ed i movimenti che oggi compongono lo schieramento moderato”. Parole del 1995.

Dopo di lui cadute in disuso, rimosse, forse rinnegate per seguire una politichetta meschina e senza respiro. Avventure culturali e politiche umiliate dall’ignavia. Avventure delle spirito che restano, comunque. Come quelle parole con le quali Tatarella salutò la nascita di Alleanza nazionale, a Fiuggi, non senza commozione: “Una pietra a questo cantiere viene portata dal congresso di Alleanza nazionale: dalla nostra pietra, dalla pietra di tutti, in umiltà come persone, ma col senso della storia come progetto, potremo costruire a cavallo tra due secoli, un nuovo corso di Rinascimento, di modernizzazione, di futuro”.

Il “cantiere” era, naturalmente, la Nuova Repubblica; il senso della storia era rappresentato dalla consapevolezza di superare i logori steccati della “guerra civile” per aprire una stagione di feconde contaminazioni nella quale la destra potesse recitare la sua parte a prescindere dai vecchi pregiudizi che l’avevano tenuta fuori dal confronto politico per decenni. Davanti a questa prospettiva, il partito che nasceva – non da una crisi lacerante, da una scissione o addirittura da una rottura del patto costitutivo che lo aveva portato ad rappresentare una parte d’Italia tutt’altro che marginale, ma dall’esigenza di “gettarsi” heideggerianamente nella contesa che il destino si stava incaricando di predisporre per l’Italia – non poteva che avere i connotati del movimento politico “armonico”, flessibile, dialogico e non ideologico. Connotati che avrebbero dovuto farlo diventare interlocutore privilegiato di forze che inevitabilmente sarebbero state attratte nella sua orbita considerando che la decadenza del sistema imponeva più moderne ed originali diversificazioni sullo scacchiere politico, al punto di far coincidere tematicamente gli opposti su questioni di nodale importanza come la riforma dell’impianto istituzionale.

Tatarella era affascinato da questa prospettiva, ma si rendeva ben conto che essa era di difficile realizzazione se non si fossero verificate talune condizioni, prima tra tutte la capacità di calamitare energie, intelligenze, proposte, eresie attorno ad un progetto che fosse ad un tempo compatibile con la sensibilità politica corrente ed insieme seducente abbastanza per vincere diffidenze radicate e proporre la Destra quale catalizzatrice di una silenziosa e tranquilla “rivoluzione” nella quale le coscienze libere si potessero ritrovare giocando la loro partita, mettendosi in discussione.


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