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La proposta della Commissione sugli aiuti di Stato conviene anche all’Italia

La proposta della Commissione si presenta come una buona base di accordo che, con qualche miglioramento in alcuni punti, conviene anche all’Italia. Migliorie ottenibili con un atteggiamento costruttivo nel negoziato che seguirà. Perché spetta ad ogni modo al Paese fare finalmente scelte strategiche, per impegnarsi nel suo avanzamento tecnologico. L’analisi di Salvatore Zecchini

Nella contesa globale tra le grandi potenze per la supremazia tecnologica ed economica l’Inflation Reduction Act (IRA) e il Chips Act (CA) degli Stati Uniti suonano al tempo stesso come il passaggio del governo americano all’uso massiccio di strumenti di politica industriale, e come il campanello di allarme per l’Ue sul rischio di essere spiazzata e di restare indietro in settori strategici per lo sviluppo futuro. Per i governanti americani l’allarme è suonato da un decennio dinnanzi ai veloci progressi compiuti dalla Cina nelle tecnologie di punta fino a colmare il suo ritardo in alcuni settori, quali il quantum computing, l’aerospazio e l’intelligenza artificiale.

La reazione è iniziata con il presidente Trump che ha imposto restrizioni all’esportazione di semiconduttori avanzati ed alte tariffe sull’import di numerosi prodotti cinesi, inclusi acciaio e alluminio. È quindi proseguita con l’amministrazione Biden, che ha esteso le restrizioni all’export verso la Cina di tutti i prodotti che potevano contribuire al suo avanzamento tecnologico e analogamente verso i paesi ostili, quali la Russia. Con l’Ira e il CA si compie un notevole salto di metodo e di intensità dell’intervento. Non solo freni agli scambi commerciali, ma sovvenzioni e generosi crediti d’imposta mirati a specifici settori con tre obiettivi principali: finanziare ricerca, sviluppo e produzione in tecnologie chiave e di frontiera; riportare in patria catene di produzione di prodotti strategici per acquisire un certo grado di autosufficienza, riducendo l’attuale dipendenza da input esterni; ed accelerare la transizione verso energie non inquinanti.

Si potrebbe parlare di una politica industriale a tutto tondo, che va oltre l’approccio consueto nei decenni scorsi del ricorso alle misure commerciali verso l’estero e si estende a incentivare specifici settori e tecnologie, offrendo agli investitori un chiaro orientamento sulla direzione in cui investire, e accompagnandolo con incentivi e finanziamenti. La gamma di strumenti è molto ampia, includendo crediti di imposta, prestiti, contributi alla produzione interna, e sovvenzioni a R&S e alla formazione delle competenze. La cornice finanziaria di Ira è considerevole, comprendendo stanziamenti in bilancio per 369 miliardi di dollari soltanto per la sicurezza energetica e il contrasto al cambiamento climatico, che con altri fondi per opere nel settore dell’energia portano il totale a circa 393,7 miliardi, secondo McKinsey. Per il CA si stanziano $280 miliardi su 10 anni, di cui 200 miliardi per la ricerca e la commercializzazione e 52,7 miliardi per la produzione di semiconduttori, a cui si aggiungono 24 miliardi di crediti fiscali. Non si tratta più di generici aiuti alla ricerca scientifica e alla tecnologia, ma di scelte di orientamento tecnologico indicate dal governo, condivise dal mondo scientifico e da quello imprenditoriale, e trasferite alla fase produttiva.

La reazione dell’Ue si è materializzata principalmente su due piani: primo, il dialogo con il governo americano per l’apertura delle provvidenze anche ai prodotti europei importati in America e per altre forme di collaborazione nell’ambito della transizione energetica; e secondo la proposta di misure analoghe nel quadro di un nuovo piano di politica industriale europea per le energie rinnovabili e la sicurezza energetica. Per la negoziazione di concessioni da parte americana è stato istituito il Trade and Technology Council tra Ue e Usa e un’apposita Task Force, che si sta occupando delle conseguenze per l’Europa dell’Ira americano. Su questo secondo versante, tuttavia, i progressi sono molto limitati, in quanto il governo americano tende a favorire l’industria e la ricerca al suo interno, con qualche concessione solo ai due paesi con cui è legata da un trattato commerciale (Canada e Messico).

La reazione europea è quindi incentrata su un insieme di proposte presentate nei giorni scorsi, che affrontano gli stessi aspetti del piano americano ricorrendo alla stessa tipologia di misure. Contro queste proposte si è immediatamente levata la voce contraria dell’Italia e degli stati membri mediterranei con diverse motivazioni che si riconducono essenzialmente al rischio che ne escano favoriti quei paesi membri che possono disporre di maggiori risorse per sovvenzionare le loro ricerche e le loro industrie. Guardando queste argomentazioni, di cui si conoscono solo le notizie apparse sulla stampa, si ha la sensazione che ci si sia lasciati trasportare dalla foga delle polemiche a causa della limitatezza delle risorse comunitarie che Bruxelles intende impegnare e per il maggior peso dato, invece, agli aiuti nazionali mediante la mitigazione della disciplina sugli aiuti di stato.

È bene, quindi, considerare attentamente i contenuti delle proposte della Commissione, le condizioni a cui l’Italia può trarne supporto e le obiezioni italiane. La proposta di piano industriale è focalizzata esclusivamente sul sostegno a una più rapida transizione verso l’economia verde e alla competitività dell’industria europea che opera per questa finalità. La proposta affronta ciascuno degli aspetti rilevanti del problema, coniugandoli attorno a quattro pilastri che tendono a ottenere un ambiente regolatorio stabile e semplificato, un’accelerazione dei finanziamenti occorrenti per gli investimenti richiesti, lo sviluppo di adeguate competenze nelle risorse umane, attualmente carenti, e l’esigenza di bilanciare i rapporti commerciali e di cooperazione con i paesi esterni. Per ciascun pilastro si delineano proposte senza entrare nei dettagli per lasciare spazio all’input dei paesi membri.

Per semplificare la regolamentazione si prospetta uno specifico Net-zero Industry Act, ovvero una regolamentazione dell’industria “verde”, che muovendo dalla identificazione del fabbisogno di capacità produttive fino al 2030, snellisca i processi autorizzativi per i progetti d’investimento, ne riduca i tempi di concessione e ne concentri la gestione in uno “Sportello Unico” da costituire. L’attenzione è rivolta in particolare alla promozione di “filiere del valore” specialmente tra stati membri, filiere che beneficerebbero di permessi rapidi e di capacità di attrarre finanziamenti privati e pubblici. In questo campo l’Italia e il suo sistema di imprese avrebbero molto da investire, in quanto secondo i dati delle Commissione, la partecipazione italiana a queste filiere attualmente non è così estesa come si vede nei paesi dell’Europa continentale e del Nord.

Molto importante è la previsione di “standards europei” per una serie di prodotti come pannelli solari, turbine eoliche, pompe di calore, batterie, e la possibilità di avvalersi di eccezioni alla regolamentazione (regulatory sandbox) per sperimentare nuove tecnologie ecosostenibili. Il tutto è ispirato alla neutralità tecnologica. Si prevedono incentivi sotto varie forme, nelle commesse pubbliche e nelle concessioni per favorire tanto le imprese del settore quanto i consumatori. Si prendono, altresì, in considerazione interventi per le infrastrutture e per assicurare la sicurezza negli approvvigionamenti di materiali critici, realizzare un nuovo disegno del mercato elettrico europeo e una piattaforma per gli acquisti in comune di gas naturale e ricorrere al price cap per le fonti di energia.

Naturalmente sono indicazioni generiche che vanno definite nei dettagli in un secondo tempo. Ma le proposte affrontano l’intero quadro e quindi non sembrano appropriate le critiche italiane che richiedono lo snellimento delle procedure per gli IPCEI e altri programmi europei, perché questa semplificazione rientra nell’ambito tracciato dalla proposta. Si tratta, invece, di discuterne quando si parlerà dei dettagli.

Sul versante del potenziamento dei finanziamenti le obiezioni italiane si concentrano sulla mitigazione della disciplina sugli aiuti nazionali e sul ruolo delle risorse comunitarie. La Commissione richiama i 250 miliardi già messi a disposizione con lo strumento per la ripresa e la resilienza (RRF), i 40 miliardi del programma Horizon, i 100 miliardi del Fondo di Coesione che sono destinati alla transizione verde, lo strumento finanziario REPower EU, le garanzie sui prestiti pubblici e privati che possono mobilitare 372 miliardi nel quadro InvestEU, e i finanziamenti della BEI. Preannuncia, inoltre, la proposta di un Fondo per la Sovranità Europea in una prospettiva di medio termine, che sarà inserito nel riesame della pianificazione del bilancio comunitario pluriennale (Multi-annual Financial Framework).

Di fatto, non si specificano quali risorse europee addizionali a quelle esistenti verrebbero allocate per questo piano industriale, mentre gli americani hanno messo in campo fondi aggiuntivi per 280 miliardi di dollari soltanto per la transizione energetica. Si parla, invece di riallocare risorse già stanziate e di fare ricorso a finanziamenti della BEI e al capitale privato.

Da questa premessa discende che se bisogna accelerare la transizione con urgenza bisogna ricorrere alle risorse nazionali tanto pubbliche che private. Quindi è necessario allentare la disciplina sugli aiuti di stato e a tal fine si propone di estendere la durata ed applicare più flessibilità nelle esenzioni accordate ai governi per superare la crisi pandemica e quella energetica innescata dall’aggressione russa all’Ucraina. Pertanto, il Temporary Crisis Framework del periodo 2020-2023 verrebbe emendato e trasformato in Temporary Crisis and Transition Framework. Non si tratta di un “liberi tutti” dalla disciplina imposta per un’equa concorrenza nel mercato unico europeo, ma di una misura straordinaria a carattere temporaneo della durata del triennio fino al 2025 e che sarebbe sottoposta a predeterminate condizioni.

Sono concessioni mirate a specifiche attività d’investimento da attuarsi in determinate forme e in comparti limitati, con l’intento di facilitare l’attuazione dei progetti, tra cui quelli previsti nei Pnrr e negli Ipcei. Le concessioni si articolano su cinque dimensioni, chiamate pilastri: a) semplificazione degli aiuti allo sviluppo di tutte le energie rinnovabili; b) stesso trattamento per la decarbonizzazione dei processi industriali; c) aiuti supplementari per la produzione di tecnologie strategiche a zero emissioni nette; d) analogamente per nuovi progetti di grandi dimensioni che comportino filiere strategiche del valore. Di particolare rilevanza appaiono il consentire aiuti maggiori dell’esistente, la neutralità tecnologica nel quadro delle produzioni net-zero, la condizione della collaborazione di più paesi membri nel progetto d’investimento per ammetterlo agli aiuti fuori-norma, l’estensione degli aiuti fino alla fase produttiva e la flessibilità nel permettere che il sostegno di un paese membro serva a portarsi alla pari con quello fornito da un paese extra-comunitario per attrarre le imprese europee. La quinta dimensione delle esenzioni dalla disciplina sugli aiuti è costituita dall’innalzamento della soglia generale di grandezza oltre la quale è necessaria la notifica dell’aiuto alla Commissione per la sua valutazione ed eventuale opposizione (GBER, ovvero la General Block Exemption Regulation). Si applicherebbe a comparti ben delimitati del settore energia e per la formazione delle relative competenze.

In sintesi, si vuole impedire la diversione di investimenti privati verso paesi extra-Ue che offrono agevolazioni più favorevoli, consentendo di accrescere l’aiuto nazionale a condizione che il progetto d’investimento agevolato coinvolga o avvantaggi più paesi membri. Allo stesso tempo si intende prevenire che la maggior libertà data agli stati membri nel concedere agevolazioni sviluppi all’interno dell’area una concorrenza tale da produrre una ricollocazione di produzioni a vantaggio di alcuni e a spese di altri. Pertanto, l’aiuto nazionale dovrà essere limitato a quanto necessario per evitare che un investimento venga spostato al di fuori dell’Ue. L’allentamento della disciplina è visto anche in funzione di facilitare l’espansione degli IPCEI, attualmente limitati a cinque progetti, e di quelli innovativi lanciati dalle Pmi.

La semplificazione di regole e procedure, l’accelerazione dei permessi, la stretta finalizzazione degli aiuti in esenzione, le condizioni stringenti a cui sono sottoposti, le limitazioni dei comparti, la durata temporanea delle eccezioni alla disciplina e la flessibilità nel valutarne l’ammissibilità in rapporto alla specificità del progetto sono tutti aspetti che convengono al nostro Paese. In contrasto, gli aspetti meno convenienti riguardano lo scarso apporto di risorse comuni in aggiunta alle esistenti e l’innalzamento della soglia del GBER, in quanto potrebbero svantaggiare i paesi che dispongono di scarsi margini per concedere aiuti. Ma la dimensione del sostegno finanziario dell’Ue è tutta da negoziare con gli altri paesi e con Bruxelles prima della definizione dell’accordo. In ogni caso è chiaro che il ruolo più importante nella transizione energetica va svolto dal capitale privato, il solo che è in grado di mobilitare risorse ben più importanti, sempre che si creino convenienze di investimento adeguate. Su questo versante vi è una richiesta all’Unione di intensificare gli sforzi per giungere a un effettiva Unione dei Mercati dei Capitali, attualmente frammentati. Si tratta di un negoziato che da anni si è impantanato per contrasti tra Stati non facilmente superabili.

Ad ogni modo, l’Italia dovrebbe tenere conto sin d’ora di alcune considerazioni. Cosa avverrebbe se non ci fosse consenso né sull’allentamento della disciplina vigente sugli aiuti nazionali, né sull’allargamento della capacità finanziaria dell’Ue? Molto probabilmente, la transizione verde procederebbe a una velocità inferiore a quella consentita da questa proposta, non si riuscirebbe ad arginare l’esodo degli investimenti verso gli Usa, e i Paesi europei con più margini finanziari troverebbero altre vie per agevolare le loro imprese e non accetterebbero di restare indietro o spiazzati nella corsa tecnologica a causa delle remore poste dai paesi ritardatari. Il risultato sarebbe pur sempre di Paesi che vi guadagnerebbero in ogni caso e Paesi che continuerebbero a perderci.

Va anche tenuto in conto che la concorrenza tra Paesi membri nell’attrarre investimenti è già notevole e continuerebbe ad intensificarsi anche senza elevare la soglia del GBER. Nel decennio scorso, il volume di aiuti accordati dalla Germania (e registrati dalla Commissione) ha superato di quattro volte quello dell’Italia (432,6 miliardi contro 86,2) e per il 79% è stato soggetto a notifica a causa del superamento della soglia, mentre in Italia il 68%. La concorrenza, tuttavia, non opera semplicemente attraverso gli aiuti di stato, ma offrendo ambienti migliori per attuare gli investimenti e condizioni più favorevoli per la loro redditività.

Altra considerazione: cosa obiettare alla proposta di riallocare un maggior flusso di risorse nell’ambito dei fondi comunitari esistenti e di quelli in programma per i prossimi anni, nei finanziamenti della Bei, nei Pnrr nazionali e analogamente nelle finanze pubbliche degli stati? Potrebbe l’Italia giustificarsi con le rigidità esistenti nella struttura della sua spesa pubblica e del suo Pnrr, nonché con i ridotti margini finanziari per via dell’elevato debito pubblico? Sono rigidità poco rilevanti a livello europeo perché frutto di scelte politiche di corto orizzonte nell’ottica dello sviluppo e sempre modificabili. D’altronde, nel suo Pnrr il governo ha allocato alla transizione verde il 31% delle risorse, una quota importante ed espandibile se avesse altri progetti validi.

Può la proposta italiana di istituire fondi europei finalizzati a finanziare progetti strategici per le stesse finalità indicate dalla Commissione essere sostenibile come alternativa quando è già parte della proposta in esame? La risposta al quesito non è positiva, perché la alternativa è analoga alla proposta della Commissione. La riallocazione delle risorse comuni e il loro ulteriore ampliamento sono ancora da negoziare e possibili nelle prossime discussioni sull’accordo e sul bilancio.

Altro interrogativo: se fosse concesso più margine per gli aiuti di stato, è certo che si produrrebbero gravi disparità tra stati a motivo delle loro differenti disponibilità finanziarie? Nella disciplina attuale i paesi maggiori con le economie più solide già sono quelli che erogano i maggiori aiuti alle loro imprese sia in termini di importi assoluti, sia in rapporto al loro Pil. L’Italia per oltre un decennio ha concesso molto meno e soltanto dal 2019 e durante la crisi pandemica ed energetica ha aumentato il suo impegno, pur rimanendo tra i meno generosi. Inoltre nel decennio fino al 2029 le imprese italiane del settore della transizione verde hanno ricevuto comparativamente meno di quelle di altri paesi europei con maggior sensibilità ai problemi dell’inquinamento ambientale. Per poter chiedere un sostegno maggiore all’UE il Paese dovrebbe mostrare di voler e saper impegnare con maggior intensità le sue risorse pubbliche in questo settore, anche a spese di altri settori. Resta poi da vedere se nelle tecnologie “verdi” le nostre imprese sono in grado di competere adeguatamente con le altre europee. Attualmente la quota italiana nel mercato europeo risulta modesta in rapporto al peso relativo della nostra economia.

Nel campo della formazione delle competenze per la transizione “verde” le proposte della Commissione sono largamente condivisibili, in quanto dispiegano un’ampia gamma di interventi, che mirano a colmare il deficit di competenze, al riconoscimento europeo delle qualifiche specifiche e a indirizzare le sue risorse verso crinali tecnologici essenziali per operare nelle tecnologie richieste dal settore. Sul versante del finanziamento si ripropongono il rialzo della soglia del GBER e la riallocazione dei Fondi del Bilancio Comunitario per formare le forze di lavoro in specifiche competenze e qualifiche. La concorrenza tra paesi membri in questo campo non appare, tuttavia, così criticabile come per il finanziamento degli aiuti ai progetti d’investimento delle imprese.

Sul fronte delle relazioni commerciali e di collaborazione con i paesi esterni all’area non sembrano avere molto fondamento i timori italiani di una guerra commerciale con gli Usa. La Commissione propone, in particolare, di mantenere una grande apertura agli scambi e alla cooperazione con l’America e a sviluppare accordi di libero scambio con altri paesi, quali l’Australia e il Cile. Si propone anche di espandere il partenariato con i paesi africani e quelli del Mediterraneo nel settore delle rinnovabili e dell’idrogeno “verde”, per l’adozione di tecnologie ecocompatibili e per assicurarsi fonti sicure di materie prime critiche. Per altro verso, ha confermato di volersi avvalere sia del nuovo regolamento entrato in vigore lo scorso mese per indagare sulle sovvenzioni straniere, sia dei vigenti strumenti di difesa commerciale per contrastare gli aiuti distorsivi e le pratiche sleali messe in atto da altri paesi nel commercio internazionale.

Complessivamente, la proposta della Commissione si presenta come una buona base di accordo, che con qualche miglioramento in alcuni punti conviene anche all’Italia, miglioramenti ottenibili con un atteggiamento costruttivo nel negoziato che seguirà. Spetta ad ogni modo al Paese fare finalmente scelte strategiche per impegnarsi più che nel recente passato nel suo avanzamento tecnologico.

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