Mi sorprende quella sinistra pacifista che lo è al punto da non esitare ad applaudire Berlusconi e criticare Zelensky per averlo criticato. L’alternativa non è essere per l’Ucraina o per la pace, questo è illogico. Le alternative sono tre: stare con Putin, volerlo sconfiggere, impegnarsi a contrastare i suoi piani per indurlo ad accettare un negoziato che parta dallo statu quo ante per renderlo stabile. L’analisi di Riccardo Cristiano
La grande cerimonia che ha avuto luogo al Gostiny Dvor di Mosca, il cortile degli ospiti, in occasione del discorso pronunciato da Vladimir Putin è stata più importante del discorso stesso per capire che cosa il presidente russo ritenga inaccettabile dell’Occidente dal punto di vista valoriale e morale: gli contesta il capitalismo, il liberismo sfrenato, l’idea thatcheriana che “la società non esiste, esiste solo l’individuo”? O forse gli contesta lo scellerato sostegno a Boris Eltzin, dal quale è nato il cleptocapitalismo dei boiardi e dei nuovi oligarchi russi? Mi sembra che non gli contesti né l’uno né l’altro. Per Putin probabilmente i patti erano chiari: io governo sull’ex spazio sovietico e porto da voi i capitali illegalmente sottratti dagli oligarchi ai russi. Il secondo corno del patto è stato accettato, il primo no. Gli potrà dispiacere, lo capisco, come capisco che ora dica all’oligarca “torna a casa Lassie”, ma se non esplicita che il patto era questo cosa dice all’Occidente per rimproverarlo indicandolo quale problema immorale del mondo? Davvero si può pensare che Putin, come il fido Kirill, sospenda il trattato Start per i Gay Pride?
La cerimonia di ieri, almeno ai miei occhi, ha dato una risposta precisa, forte, chiara, riassunta nell’immagine proiettata dalla televisione di Stato russa, quindi studiata da lui stesso, Vladimir Putin, di tutta evidenza. E che è stata trasmessa dalla televisioni di tutto il mondo. La ripresa in oggetto ha immortalato i secondi che hanno preceduto l’ingresso nell’enorme sala di Vladimir Putin con un campo largo, che poi, mentre il leader entrava, è andata restringendosi sui presenti e poi su di lui, in modo che risultasse ben visibile la presenza in prima fila del patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill I. Lo si vedeva benissimo, sia nel girato da dove entrava Putin sia nelle immagini da fondo sala, per via di quella enorme tiara bianca esibita dal patriarca, un simbolo pontificale: quel grandissimo copricapo con tanto di croce d’oro al suo centro doveva risaltare evidente, e risaltava evidentissimo, perché simboleggiava il ponte che tramite Kirill si costituiva tra tutti i fedeli del leader e Dio. È questo che Putin contesta all’Occidente, è questa la sua immoralità: la separazione tra potere politico e potere spirituale, tra Chiesa e Stato. Tradotto: in assenza di un accordo politico per ridarmi tutto lo spazio sovietico lo cercheremo nel nome di Dio. È uno stile compiutamente stalinista, che ricorda la mossa decisiva di Stalin prima di Leningrado, nel ‘43, per avere la Chiesa con tanto di patriarca ora concesso al suo fianco: come allora ancor più oggi il leader russo ha unito il partito-Stato e la Chiesa etnica, unica espressione spirituale possibile per ogni russo. Infatti del tanto sbandierato mufti della Federazione Russa si è avuta forse un’anonima traccia, nella storica ripresa televisiva di cui ci occupiamo; neanche traccia v’era ovviamente del rabbino, in esilio dallo scorso anno.
È questa la rottura di Vladimir con l’Occidente. Per nostra enorme fortuna a Roma papa Francesco si è rifiutato di seguire il copione e diventare il chierichetto di Biden, o meglio il cappellano della Nato. No. Bergoglio non è il cappellano d’Occidente e della sua Alleanza Militare e di questo miracolo dovrebbero ringraziarlo non solo i credenti ma soprattutto tutti i laici consapevoli. Se il papa avesse ceduto e avesse “benedetto” l’invio di armi in partenza per Kiev – una scelta questa di inviare armamenti che personalmente in via di principio ritengo indispensabile – sarebbe diventato un Kirill qualsiasi, ma per noi sarebbe stato un disastro, riproducendo i tempi delle Crociate, del “Deus vult”. Non è andata così. Ma questo non ha significato che il papa abbia rinunciato a parlare di aggressore e aggredito, a difendere la vittima e il suo diritto a difendersi. Non è successo, infatti lo ha detto da Roma, dal Kazakistan, dal Congo. Ma senza definire dalla sua cattedra spirituale legittimante una guerra “benedetta” da Dio. Non ha fatto come i pope russi che hanno cominciato a benedire i Mig russi che partivano per bombardare scuole e ospedali in Siria ai tempi di quello che è stato l’antefatto ucraino.
Dunque ieri a mio avviso è diventato visivamente indubitabile di cosa dobbiamo ringraziare Francesco. La sua teologia fa della sua Chiesa una Chiesa globale, anche di quei russi che – lo sappiano o no – sono o sarebbero benvenuti e comunque fratelli, come tutti gli altri cittadini non occidentali del mondo. Poi le ragioni e le colpe, la visione e la miopia di questo Occidente la valuteremo noi e loro, con le nostre concezioni e visioni politiche. Ma la Chiesa globale non si lega le mani a disegni, priorità, progetti. È questa Chiesa globale la vera novità del tempo di Francesco, sebbene vada detto che il papa che ha cancellato dall’elenco dei titoli pontifici quello di “Patriarca d’Occidente” (quale massima autorità della Chiesa Latina) non è stato Francesco, ma il suo predecessore.
Queste giornate sono state dunque molto importanti perché il gran correre in Polonia, oltre che in Ucraina, fa pensare che si apprezzi quella visione che dà al conflitto con Mosca un approccio moscovita, cioè che sceglie una confessionalizzazione della politica. Anche nella sostanza Varsavia e Mosca indicano strade tanto opposte quanto analoghe, fatte cioè in lotta frontale tra di loro, ma sempre nel nome di uno Stato che imponga a tutti il suo modo di rispondere a Dio, con il no all’ospitalità per gli stranieri (se non politicamente graditi), a ogni possibile forma di aborto, di unione omosessuale e molto altro. Non è quello che vorrei, né per me, né per il mio Paese, né per l’Occidente, né per il mondo. E mi chiedo se i pacifisti di sinistra vivano nel mondo di oggi o in quello finito nel 1989. Il diritto internazionale, come ha saggiamente spiegato Habermas in questi giorni, dovrebbe interessare anche i pacifisti di sinistra, se non fossero ancora racchiusi in un mondo defunto, quello in cui Mosca rappresentava la lotta contro l’Occidente capitalista, la lotta per la costruzione del Paradiso in terra della Terza Internazionale che poi è stata la traduzione atea della Terza Roma, quella che oggi Kirill e Putin propongono per Mosca. Mi sorprende quella sinistra pacifista che lo è al punto o da non esistere a plaudire Berlusconi e criticare Zelenski per averlo criticato, addirittura apprezzando che Putin abbia detto nel suo discorso di ieri di aver “aiutato l’Italia” ai tempi del Covid (come? Sarebbe interessante saperlo finalmente). L’alternativa non è essere per l’Ucraina o per la pace, questo è illogico. Le alternative sono tre: stare con Putin, volerlo sconfiggere, impegnarsi a contrastare i suoi piani per indurlo ad accettare un negoziato che parta dallo statu quo ante per renderlo stabile.
Continuare a non vedere che in gioco c’è tutto questo è a mio avviso molto strano. Ovviamente non posso non considerare che sia io a sbagliarmi e non i pacifisti di sinistra, ma la lezione di Francesco, data e giocata sulla pelle della sua Chiesa che a differenza dei pacifisti di sinistra è anche in Ucraina, con tanti fedeli di lì che soffrono alcune presunte esitazioni papali, avrebbe bisogno almeno di rispetto, se non di sostegno. Come? Chiarendo anche alla Nato che si dice di sì ma per affermare l’idea di un’Europa che rispetta i popoli, anche quello russo ovviamente, perché rispettare il diritto internazionale vuol dire questo. Ma si rispetta anche la grande conquista di non essere né cesaropapisti come la Russia di Putin, né teocratici come i suoi due possibili alleati, la Turchia di Erdogan e l’Iran di Khamanei. Il progetto orientale che potrebbe determinarsi infatti e al quale costoro si ispirano è questo: un “mondo russo” che elimina il diritto a esistere delle altre Russie fuori dal controllo dello zar e del suo patriarca, un “mondo turcofono” che unisce i turcofoni da Istanbul ai confini cinesi sotto lo scettro dell’aspirante sultano e del suo mufti, e un islam teocratizzato che riproduca l’impero persiano da Tehran al Mediterraneo grazie alle milizie khomeiniste che imperversano in Iraq, in Siria, in Libano e nello Yemen. Sono tre parallele, terribili e compatibili davanti alle quali l’Europa fortezza è perdente. Se Erdogan sarà costretto a sfilarsi per via del terremoto lo vedremo, ma intanto il progetto c’è e comunque se nell’immediato dovesse parzialmente sfilarsi potrebbe sempre essere ripreso.
Ecco perché a mio avviso ha ragione Habermas, nell’articolo pubblicato in questi giorni su La Repubblica, quando dice che bisogna impegnarsi non a sconfiggere Mosca ma ad evitare che sia sconfitta Kiev, perché occorre difendere il diritto e ricordarsi che il fattore tempo non gioca a favore di Kiev, che ha meno uomini. Come disse De Mita nel suo primo confronto con Bossi, “non esistono soluzioni facili a problemi complessi”, ma occorre la consapevolezza di quanto sia importante disfare questa intesa trilaterale difendendo la separazione tra potere politico e potere spirituale, non pretendendo di sconfiggere militarmente tutti i regimi, ma impedendogli di cancellare chi si oppone ai loro disegni. Una linea di resistenza in Ucraina equivale a una linea di resistenza a Beirut, o nell’Asia Centrale. Per farlo non possono bastare le armi, a Kiev occorrono ma con la capacità di prospettare anche un dialogo multiculturale e multipolare nel quale l’Europa svolga il ruolo di facilitatore, di promotore, di finanziatore, di aggregatore nel nome del vivere insieme che è il solo compatibile con i valori dell’umanesimo, non dell’Occidente. Russi, turchi e iraniani stanchi dei loro sistemi non mi sembra che manchino. Con loro gli occidentali potrebbero chiedersi se sono disposti a rinunciare a un liberismo di rapina del quale non hanno più l’esclusiva.
Non si tratta certo di esportare la democrazia con le baionette come si disse ai tempi dell’Iraq, senza però mai dire una parola sull’orrore di Saddam. Dunque si tratta di capire quali sfide ci porti il presente, non il secolo scorso. I pacifisti di sinistra parlano spesso di Francesco: ma il punto per loro non dovrebbe essere quello di diventare suoi chierichetti quando sembra comodo, ma interlocutori onesti e grati per una scelta che ci ha già salvati, almeno sin qui. Questa sua scelta spirituale di enorme valenza politica andrebbe per me vissuta nella indispensabile tensione tra i poli (globale e locale, patriottismo e universalismo) che non possono elidersi, ma coesistere; è la sola che può aiutarci a pensare un mondo non di fortezze o casematte, ma con un nuovo ordine globale e multipolare.