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Tutti i nodi per l’Italia della riforma del Patto di stabilità. L’analisi di Zecchini

L’approccio alla riforma rimane isolato nel quadro della governance comune, quasi in un compartimento a sé stante, non prevedendo alcun collegamento con gli interventi del Pnrr e dei Fondi strutturali del bilancio comune. Salvatore Zecchini analizza tutte le questioni aperte sia per il nostro Paese sia degli altri Stati membri

All’ultima riunione dell’Ecofin di alcuni giorni fa sono riprese le discussioni sulla necessaria riforma di una parte importante della governance economica europea, quella che è rappresentata dal Patto di Stabilità e Crescita. La riforma è tanto più pressante quest’anno in quanto nel prossimo dovrebbero tornare in vigore le regole che sono state sospese nel marzo del 2020 allo scoppio della crisi pandemica, regole che devono fare i conti con una realtà economica molto diversa da quella pre-crisi.

Per l’Italia il ritorno alle regole preesistenti sarebbe una vera sfida molto ardua da vincere, se non al prezzo di un’austerità difficilmente accettabile da una società che sta uscendo molto provata da un triennio di difficoltà.

Sulla necessità di rivedere il Patto vi è attualmente una larga convergenza tra tutti i paesi dell’euroarea con motivazioni, peraltro, non sempre concordanti: per alcuni le regole si sono dimostrate scarsamente efficaci, per altri irrealistiche e con obiettivi irraggiungibili. Anche sui contenuti delle modifiche le idee divergono all’interno dei paesi e nel mondo degli esperti, al punto da aver reso opportuna per la Commissione Europea l’apertura di una fase preliminare di consultazione ampia, che si è svolta lo scorso anno. Alla fine, nel novembre scorso la Commissione ha presentato la sua proposta come base di discussione tra i ministri e al Parlamento europeo, aprendo così il cantiere per la fase di negoziazione e decisionale.

Il contesto dell’economia europea in cui le decisioni devono inserirsi si presenta molto distante sia da quello precedente l’ultima crisi, sia rispetto a quello originario che diede vita al Patto e alle tornate di modifica che ne seguirono. Il ritmo di inflazione si colloca su tassi troppo elevati, seppure calanti. A livello di zona euro le ultime rilevazioni sulla dinamica dei prezzi al consumo al gennaio scorso riportano un ritmo annuo dell’8,5%, con quello dell’Italia al di sopra della media della zona (10,1%). La crescita economica registra un forte rallentamento, con una discesa che la Commissione stima allo 0,9% per l’area euro e 0,8% per l’Italia. I disavanzi pubblici alla fine dello scorso anno albergavano tra il 4% e il 5% del Pil, ossia al di sopra del limite del 3% nonostante la ripresa della crescita.

Di riflesso, il rientro del debito pubblico verso livelli più sostenibili procede gradualmente, mostrando ancora sei paesi, tra cui Italia e Francia, su livelli superiori al 100% in rapporto al prodotto interno. Tra i grandi membri dell’eurozona la posizione debitoria dello stato italiano si presenta come la più vulnerabile a shock esterni, in quanto secondo le proiezioni del Nadef tende a rimanere oltre il 141% del Pil fino al 2025.

Alla luce di questa realtà appare un miraggio il ritorno di inflazione, disavanzi e debito pubblici entro le regole decise nel lontano 1997. La tanto vituperata regola del 3% per il disavanzo, nondimeno, nasceva dal tentativo di stabilizzare l’evoluzione delle grandezze di bilancio sui valori medi dell’epoca come precondizione per la stabilità finanziaria. Si considerò, in particolare, che in Europa la media dei debiti pubblici degli aderenti potenziali era attorno al 60% del Pil, la crescita in media attorno al 3% annuo e l’obiettivo d’inflazione per ottenere la stabilità monetaria fosse di circa il 2%, come si registrava nei paesi con maggiore solidità macroeconomica. Se nel corso degli anni crescita ed inflazione avessero continuato mediamente a procedere a quei ritmi, un disavanzo di bilancio entro il 3% Pil avrebbe consentito di mantenere il debito pubblico entro il 60% Pil.

Di fatto, negli ultimi 15 anni crescita, inflazione, disavanzi e debito hanno conosciuto notevoli sussulti endogeni (ovvero dovuti a scelte dei governi) e shock esogeni, discostandosi ampiamente dai parametri del Patto e mostrando difficoltà a riportarsi verso di essi. Il nodo da sciogliere è, quindi, se considerarli ancora validi ma raggiungibili solo nel migliore dei mondi, oppure aggiornarli. Nel primo caso diventerebbero un traguardo ideale verso cui tendere, ma a velocità compatibili con l’esigenza di chiudere l’eventuale differenziale negativo della crescita rispetto al suo potenziale di medio periodo. Nel secondo caso bisognerebbe, da un lato, ottenere il consenso unanime dei paesi per la modifica del Trattato sull’unione, perché sono fissati in quel contesto. Dall’altro lato, occorrerebbe accordarsi su quale sia il livello che può assicurare la stabilità finanziaria nell’area e prevenire comportamenti opportunistici di uno o più membri, che mettendo a rischio la stabilità dell’area, richiederebbero l’intervento di salvataggio degli altri. Va da sé che in ogni caso non si può fare a meno di fissare alcune regole sulle politiche di bilancio nazionali, regole semplici e credibili che impediscano l’emergere di squilibri insostenibili nelle finanze pubbliche di uno stato.

Il livello obiettivo del debito pubblico, in linea teorica, non può che determinarsi sulla base del calcolo della sua sostenibilità nel tempo, che a sua volta dipende in definitiva dal divario nel tempo tra il tasso di remunerazione del debito e quello di espansione del prodotto interno, essendo quest’ultimo la fonte primaria di solvibilità del Paese. Come ha dimostrato il ben noto economista, O. Blanchard, la sostenibilità è un concetto probabilistico nel senso che la si può considerare raggiunta quando l’eventualità di una dilatazione fuori controllo del debito nel tempo sia ritenuta bassa. In quanto probabilistica, una tale valutazione va ripetuta negli anni, comporta margini di errore e non si presta a essere ridotta a limiti quantitativi predeterminati. Se necessario, un vincolo quantitativo dovrebbe basarsi sull’aggiustamento del saldo primario di bilancio (ovvero al netto del servizio del debito) per compensare il divario tra remunerazione del debito e crescita.
Ma quando il debito raggiunge le vette così elevate come si registra attualmente in alcuni paesi, la sostenibilità dipende anche dall’atteggiamento dei mercati finanziari, lasciando da parte l’eccezionale ruolo di sostegno svolto dalla Bce nell’ultima crisi.

I sentimenti dei mercati possono mutare repentinamente in risposta a proprie valutazioni di eventi di diversa natura, innescando crisi debitorie come si è visto da ultimo un decennio fa. La reazione del Consiglio europeo a shocks, crisi debitorie e deviazioni dagli obiettivi è stata in passato nella direzione di porre nuovi vincoli sulla politica di bilancio in termini di limiti di spesa, saldo strutturale e riduzione annuale del debito in relazione al Pil. La proposta di riforma in discussione intende superare questo assetto meccanicistico e di dubbia quantificazione, pur conservando i limiti del 3% sui deficit e del 60% per il debito.

I Paesi che non sono in linea con questi limiti sono chiamati a tracciare programmi pluriennali di aggiustamento di intensità e durata differenti a seconda della valutazione del rischio di sostenibilità del loro debito. In particolare, i paesi sono raggruppati in tre classi di rischio. I traguardi non cambiano, ma il percorso per raggiungerli e gli strumenti operativi sono riformulati nell’intento di ottenere maggiore responsabilizzazione del paese nell’osservanza del programma che ha contribuito a definire. Sembra una reinterpretazione in chiave Patto di Stabilità dell’approccio applicato per i Pnrr.

Per l’Italia la proposta presenta diversi nodi, in aggiunta a quello iniziale del realismo del traguardo sul debito e della debolezza di giustificazione per quello sul disavanzo. La prima criticità sta nella classificazione dei paesi sulla base di una metodologia sulla stima di sostenibilità del debito, che in realtà non può essere oggettiva, ma solo probabilistica. La classificazione per sé condiziona il giudizio dei mercati, che finirebbero per attenervisi indipendentemente dai miglioramenti che, per esempio, possono avvenire nella posizione debitoria dell’Italia, pur restando nella categoria di quelli ad alto rischio.

Altro nodo, i Paesi a basso rischio sono di fatto esentati da effettivi vincoli di politica di bilancio, col risultato di rendere la governance economica europea a senso unico verso un trend di stabilizzazione (deflationary bias), che conduce a stagnazione economica, in quanto nessun Paese con margini a disposizione si farebbe carico di stimolare la crescita dell’economia europea quando gli altri sono impegnati a frenare la loro domanda. Si tratterebbe, pertanto, di avere solo un Patto per la Stabilità e non anche di Crescita, che non risolve il problema più ampio della governance dell’economia europea.

La stessa analisi di sostenibilità sarebbe esposta al problema di dover quantificare fattori o variabili non osservabili o di stima complessa e con margini consistenti di errore, come nel Patto attuale. Ancor più discutibile appare tanto il ruolo principale affidato alla Commissione nel disegnare il tracciato di riferimento del processo di aggiustamento del debito, quanto il far leva su un unico strumento operativo, il contenimento della dinamica della spesa primaria al netto della componente ciclica e di misure discrezionali. La spesa per investimenti rientrerebbe, pertanto, sotto il vincolo di spesa, pur essendo importante per elevare il potenziale di crescita.

L’obiettivo da raggiungere consiste nel piegare la dinamica del debito in rapporto al prodotto su una traiettoria stabilmente e credibilmente calante entro un periodo di quattro anni, estensibile a sette a certe condizioni. Si vuole stabilire, in altri termini, una garanzia che dopo questo periodo di aggiustamento e rispettando il vincolo del 3% di disavanzo, il peso relativo del debito continui a ridimensionarsi senza necessità di nuovi interventi.

Il piano della Commissione fungerebbe da pietra di paragone per valutare il programma presentato dal paese, che dovrà includere investimenti pubblici, riforme e misure di bilancio. Su questa base si sviluppa il dialogo con la Commissione per giungere alla definizione del programma, che insieme alle sue raccomandazioni sarà presentato al Consiglio per l’approvazione finale. Nel caso di rigetto si applicherebbe il piano della Commissione, a cui spetterebbe anche il compito di sorvegliarne l’attuazione e di proporre eventuali modifiche. In definitiva, quest’ultima guida il processo di aggiustamento e tende a prevalere nella scelta finale delle misure. Alle istituzioni di bilancio indipendenti è affidato il ruolo sussidiario di valutare l’adeguatezza del programma e di collaborare nella sorveglianza dell’attuazione.

L’impostazione proposta altera l’equilibrio dei poteri nella governance dell’Unione, limita il peso di considerazioni politiche nel quadro più ampio della collaborazione tra paesi e spinge Paesi ad alto debito come l’Italia a compiere scelte difficili. In particolare, sollecita a espandere la quota di spesa destinata agli investimenti per lo sviluppo a scapito di quella corrente che, peraltro, ha in gran parte carattere obbligatorio.

Gli effetti potrebbero risultare positivi, se il governo fosse indotto di conseguenza a ottenere maggiore efficienza da una spesa corrente ridimensionata e a tagliare sprechi ed elargizioni poco produttive. Potrebbero, invece, scaturire tensioni se si operasse mediante riduzioni dei servizi pubblici o della spesa sociale.

L’obiettivo di rendere il Paese più partecipe e responsabile del successo del programma non sembra che si possa considerare raggiunto, visto che la Commissione tende a prevalere. Il capitolo delle sanzioni per inosservanza del programma suscita anche perplessità perché diventerebbero automatiche, più penalizzanti e lasciano poco margine per la flessibilità richiesta per tener conto di fattori imprevedibili.

Nel contempo, si ammettono trattamenti differenziati tra Paesi senza un metro chiaro per validarne la giustificazione. L’approccio alla riforma, inoltre, rimane isolato nel quadro della governance comune, quasi in un compartimento a sé stante, non prevedendo alcun collegamento con gli interventi del Pnrr e dei Fondi strutturali del bilancio comune. Il cofinanziamento nazionale dei progetti condivisi con Bruxelles dovrebbe, invece, essere escluso dal conteggio dell’aggiustamento.

Si tralascia, altresì, di affrontare il problema del trattamento da dare a quella parte di debito che è stato emesso per fronteggiare le conseguenze delle crisi pandemica ed energetica. Questo debito ha carattere straordinario, è una risposta alle crisi che hanno investito l’intera area ed è in parte detenuto nel portafoglio del sistema della Bce. Può questo eccesso di debito essere assimilato a quello ordinario, o non richiederebbe un meccanismo ad hoc di risoluzione?

Diverse osservazioni possono sollevarsi sulla proposta di riforma, ma va apprezzato l’intento di semplificare le regole, instaurare una collaborazione tra ciascun Paese e Bruxelles nella messa a punto di un programma per la stabilità nello sviluppo, differenziare i percorsi di aggiustamento secondo l’entità degli squilibri da risanare e porre l’accento sulle riforme di struttura e gli investimenti.

Se i parametri del 3% e 60% mancano ormai di un fondamento razionale, lo stesso potrebbe dirsi per qualsiasi altro parametro che fosse prefissato ed immutabile per lunghi periodi. Si potrebbe, quindi, lasciarli come traguardi ottimali, che servirebbero a indicare la direzione e non l’intensità dell’aggiustamento richiesto per consolidare la stabilità dell’area monetaria.

Occorrerebbe, piuttosto, puntare su un rafforzato coordinamento delle politiche macroeconomiche dei maggiori paesi e una condivisione di responsabilità, benché non necessariamente nella forma di una capacità di bilancio comune dell’Ue.

Questa richiesta incontra dure opposizioni e postula l’avanzamento consapevole verso una struttura federativa dell’Ue, che non tutti condividono. Per fornire i beni pubblici europei, propriamente detti, quali difesa, sicurezza e giustizia bisogna accordarsi su soluzioni ad hoc, che sono possibili e rese sempre più urgenti dalle tensioni crescenti sul fronte europeo orientale.

Dopo tutto, il cantiere della riforma del Patto è aperto alla proposta della Commissione al pari di quelle dei Paesi membri. L’importante è giungere a conclusioni realistiche, valide e tempestive, anche se non è possibile su tutti i punti.


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