Primi effetti dell’embargo europeo sui conti pubblici della Federazione. A gennaio il disavanzo tocca quota 25 miliardi di dollari, complice il crollo del 46% delle entrate da idrocarburi. E anche l’alleato cinese ha i suoi grattacapi
Qualcuno a Mosca passerà un brutto quarto d’ora. Il 2023 della Russia non poteva cominciare peggio, dal momento che l’unica certezza dell’ex Urss, la vendita di petrolio e gas ai Paesi amici, a cominciare dalla Cina, sembra vacillare. E tra risparmiatori in fuga, banche tagliate fuori dai circuiti occidentali di pagamento, embargo europeo sul petrolio e progressivo sganciamento del Vecchio continente dalle forniture russe, per Mosca cominciano a essere guai seri.
La prova? Nei numeri diffusi dallo stesso ministero delle Finanze, certamente non una fonte ostile agli interessi del Cremlino. Il che rende l’attuale situazione decisamente più complessa. Ebbene, le entrate del governo russo nel settore del petrolio e del gas sono letteralmente crollate a gennaio, contribuendo al più grande deficit di bilancio per il primo mese dell’anno almeno dal 1998. Più nel dettaglio, le entrate fiscali da petrolio e gas sono diminuite del 46% a gennaio rispetto a un anno fa, mentre c’è stato un aumento del 59% della spesa a causa della guerra in Ucraina. La combinazione di questi fattori ha portato la Russia a registrare un deficit pubblico di 1.760 miliardi di rubli (25 miliardi di dollari).
Il calo delle entrate da petrolio e gas segue le sanzioni occidentali sulle esportazioni russe, che ora includono anche l’ultimo divieto dell’Unione europea sulla maggior parte delle importazioni via mare di combustibili grezzi e raffinati, nonché il limite di prezzo del G7. A causa di tali misure, il greggio degli Urali, la principale miscela di esportazione della Russia, viene scambiato a sconti significativi rispetto ai prezzi di riferimento. A gennaio, gli Urali hanno infatti registrato una media di 49,48 dollari al barile, il più basso da dicembre 2020.
E non si può certo dire che Mosca possa continuare a fare affidamento sul suo alleato di ferro, la Cina. Pechino non se la passa più di tanto bene. Tra le 60 società immobiliari quotate in Borsa e che da sole valgono un buon pezzo di Pil cinese, il 60% ha riportato perdite nel 2022, quando la contrazione del credito ha mandato in tilt il settore e ha scatenato le insolvenze. E solo il 5% delle aziende ha registrato profitti, mentre la restante quota non ha presentato il bilancio.
A questo punto, Putin ha davanti a se poche alternative. Il capo del Cremlino ha chiesto al suo governo di elaborare entro il 1° marzo un piano su come valutare il prezzo del petrolio russo per compensare l’effetto negativo delle sanzioni sulle entrate di bilancio. In una dichiarazione separata, il dipartimento del Tesoro ha rivelato di aver venduto 3,6 tonnellate di oro e 2,3 miliardi di yuan dal fondo sovrano a gennaio per contribuire a coprire il deficit. Ma non basta.