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L’Italia è pronta alla settimana corta. La proposta di Benaglia (Fim-Cisl)

Il segretario dei metalmeccanici Roberto Benaglia lancia l’idea di una sperimentazione per ridurre l’orario di lavoro, senza però diminuire la produttività delle imprese: “Il settore in questi anni è molto cambiato e le competenze si sono diversificate. Si tratterebbe di una rivoluzione culturale del mondo del lavoro, estendibile anche ad altri settori”

La sfida è duplice: mantenere (o addirittura incrementare) la produttività delle aziende e migliorare il tenore di vita dei lavoratori, riducendone l’orario. Sulla scorta di un esperimento – ben riuscito – nel Regno Unito, la proposta di “accorciare” la settimana lavorativa arriva dal segretario della Fim-Cisl, Roberto Benaglia che, a Formiche.net, la spiega nel dettaglio approfondendo alcuni aspetti.

Lavorare meno per lavorare tutti. Uno slogan, o poco più, o realtà raggiungibile, anche in Italia? E in che modo?

Per essere raggiungibile è raggiungibile, serve solo la volontà di arrivare a questo obiettivo. Mi rendo conto che, più che altro, si tratti di una sorta di rivoluzione culturale. La spinta deve partire dalle imprese, in particolare da quelle di grandi dimensioni. D’altra parte non si può non capire che il mondo del lavoro, negli ultimi anni, è profondamente mutato: non è più possibile ragionare per “ore lavorate”, ma si deve iniziare a ragionare per “obiettivi raggiunti”. Obiettivi che, chiaramente, si possono centrare anche riducendo l’orario e migliorando la vita dei lavoratori.

È proprio sicuro che tutto questo sia economicamente sostenibile e che non si vada a inficiare la capacità produttiva delle imprese?

Questo deve essere l’obiettivo: lavorare meglio, ma in un tempo più ridotto, conciliando in maniera virtuosa il tempo vita-lavoro dei propri dipendenti. Se le condizioni del luogo di lavoro sono migliori, si è generalmente spronati ad applicarsi di più. Peraltro non significa che il tempo che verrebbe “guadagnato” debba essere necessariamente passato in svago. Si può invece pensare di integrare l’orario di lavoro con formazione o dedicarlo ai carichi di cura. La parola chiave deve essere flessibilità.

Come mai questa proposta parte proprio dal settore metalmeccanico?

Perché probabilmente è quello che sta cambiando più di altri. Nell’immaginario collettivo le imprese metalmeccaniche sono ancora improntate sul modello della vecchia fabbrica. Ci sono ancora realtà di questo tipo, ma a ben guardare molti metalmeccanici lavorano in smart working, sono per lo più informatici o softwaristi. Però, ovviamente, si parte da questo ma è estendibile a molti altri comparti: dal Terziario alla manifattura più in generale.

Secondo lei, dunque, il nostro sistema imprenditoriale è pronto a “reggere” l’impatto di questa sperimentazione?

Secondo me siamo pronti ma non lo sappiamo. In questi anni ci siamo occupati essenzialmente di emergenze: dalla pandemia alla guerra, passando per l’inflazione e i rincari energetici (oltre che sulle materie prime). Nel frattempo, però, la manifattura è cresciuta e le competenze sono cresciute sempre di più confermando un ruolo preponderante dell’impresa italiana anche su scala europea.

Il ruolo del governo, in questa “partita” quale sarebbe?

Non bisogna chiedere una nuova legge sul lavoro, per carità. Ce ne sono già troppe. Bisogna invece avviare una contrattazione a parte che coinvolga le imprese, le categorie e chiaramente i sindacati per avviare la sperimentazione della settimana “corta”. Certo è che il Governo è molto vicino alle imprese e se decidesse di facilitare questo percorso potrebbe intestarsi una battaglia importante per il rilancio del mondo del lavoro.

 

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