Per rispondere all’autarchia scientifica cinese, l’Italia deve costruire un’alleanza di ricerca con l’Europa, gli Usa e gli altri Stati democratici: è la promessa di libertà che attrae le menti brillanti. Tra il convegno al Csa e le tecnologie “disruptive” più importanti, il commento di Marco Mayer, docente di Intelligence e Sicurezza Nazionale alla Lumsa
Mentre ascoltavo Gianni De Gennaro e Luciano Violante introdurre il convegno del Centro Studi Americani insieme alla Fondazione Civiltà delle Macchine di Leonardo e all’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma ho pensato alla frase pronunciata il primo settembre 2017 dal Presidente Putin nella città di Yaroslav.
Per la cronaca è un centro molto famoso in Russia perché sede del primo festival di jazz autorizzato dalle autorità sovietiche nel 1979, anno dell’invasione dell’ Afghanistan.
A Yaroslav Vladimir Putin ha solennemente dichiarato, come riporta la Tass, “la Nazione leader nell’Intelligenza Artificiale dominerà il mondo”.
La valutazione specifica sulla AI è probabilmente eccessiva, ma è vero che nella fase storica che stiamo vivendo la sfida per la predominanza scientifica e tecnologica riveste un ruolo assolutamente centrale nella politica internazionale.
Mercoledì scorso il Presidente cinese Xi Jinping è intervenuto – nella terza commissione del Politburo del Partito Comunista Cinese – per annunciare un programma di lungo periodo per potenziare la ricerca di base (e le applicazioni tecnologiche ad essa correlate) con l’obiettivo di colmare le consistenti debolezze del Dragone in campo scientifico.
La Cina, ha, infatti, sofferto molto la perdita della cooperazione scientifica e univertaria con gli Stati Uniti su cui ha potuto contare per quasi 30 anni.
Il segretario generale del Pcc ha fatto bene a sottolineare il ruolo cruciale della ricerca di base, che è spesso sottovalutata dalle nostre parti e anche da alcuni governi europei, ma ciò non avviene in altri paesi avanzati, Israele in primis, ma anche Corea e Singapore solo per fare pochi esempi.
Il Presidente cinese ha spiegato che una grande potenza come la Cina vuole disporre di capacità scientifiche proprie per non dipendere da altri paesi ed affermare progressivamente la sua leadership mondiale.
Nel suo discorso si trova, però, una formula oscura: “sviluppo scientifico con caratteristiche cinesi”. E non vi sono ovviamente riferimenti alla libertà di ricerca e alla libertà di insegnamento.
È noto come nazionalismo e scienza non vadano d’accordo e l’espressione “scienza con caratteristiche cinesi” suona davvero strana.
Tuttavia essa riflette il clima che si vive nei palazzi a Pechino dove la classe dirigente non percepisce come scienziati “veramente cinesi” neppure i concittadini emigrati all’estero qualora abbiano ottenuto la cittadinanza straniera. La Cina appartiene ad una civiltà millenaria con una storia e cultura molto peculiare e per molti aspetti rappresenta “un pianeta a sé”.
L’ assenza e/o la limitazione della libertà di insegnamento e di ricerca è, invece, un fenomeno tipico di tutte le autocrazie. Sotto questo profilo i regimi autocratici rispetto alle nazioni democratiche hanno il vantaggio di poter sperimentare rapidamente l’applicazione di tecnologie intrusive della libertà e privacy dei cittadini senza dover fare i conti con l’opinione pubblica.
Ma per fortuna c’è anche l’altra faccia della medaglia. Nei paesi dove esistono forti limitazioni ai diritti della persona ed è negata la libertà di stampa scienziati e ricercatori non vivono né lavorano volentieri.
Per esempio quanto ha raccontato al convegno Barbara Carfagna sui progetti High Tech in Arabia Saudita suscita una domanda: quando gli scienziati stranieri (lautamente pagati) se ne andranno non c’è il rischio (o forse la fortuna) che i laboratori restino vuoti senza le competenze indispensabili per cogliere frutti nel medio e lungo periodo?
Per le democrazie è, invece, molto più facile attrarre le migliori intelligenze e questo è indubbiamente un grande vantaggio nella competizione mondiale per la primazia in campo scientifico e tecnologico. A questo propsito la novità più importante emersa dal convegno del Csa come ha scritto Otto Lanzavecchia su Formiche.net è la crescente convergenza trasversale tra intelligenza artificiale, cloud computing, computazione e comunicazione quantistica, blockchain, metaverso, ricerca spaziale, uso dei big data per sanità, biotecnologie e genetica, fusione nucleare e piattaforme digitali innovative per le energie rinnovabili.
La grande novità rappresentata da queste tecnologie “dirompenti” (e tra loro strettamente interconnesse) dovrebbe essere al centro dell’attenzione della classe politica e imprenditoriale italiana.
Siamo in mezzo a una fase di grande cambiamenti. Per questo la politica tecnologica e della ricerca dovrebbe essere al centro nell’azione del governo e di tutto il parlamento (maggioranza e opposizione).
Dalla relazione del fisico Enrico Prati (ma il tema è stato ripreso anche da Riccardo Luna e Barbara Gasparini) l’agenda per il nostro paese è chiara. Gli imperativi sono essenzialmente due:
- a) recuperare un ritardo che ha costretto moltissimi giovani ricercatori a emigrare all’ estero;
- b) attrarre in Italia i migliori talenti dall’Europa e da tutto il mondo.
Aggiungo che sul piano della cultura politica sarebbe l’ora che i partiti, i politici e gli osservatori abbandonassero una volta per tutto l’assurda contrapposizione tra il sovranismo e il “globalismo”.
Senza Stati funzionanti in modo decente non si va da nessuna parte, ma nell’era in cui viviamo gli Stati non possono funzionare senza uno “zoccolo” minimo di cooperazione internazionale per il contrasto al cambiamento climatico, alle pandemie, alle carestie e crisi alimentari e all’instabilità finanziaria.
Ne consegue che gli interessi nazionali dell’Italia si difendono riducendo innanzitutto la dipendenza energetica dalla Russia e quella digitale dalla Cina cresciuta notevolmente dall’inizio del terzo millennio.
Occorre dunque potenziare i nostri laboratori e aumentando i finanziamenti alla ricerca, ma senza illusioni autarchiche. È altrettanto importante aprirsi all’ Europa, agli Stati Uniti, a tutti i paesi del mondo libero. Se l’Italia non si dota di una piattaforma scientifica, tecnologica (e anche militare) più solida la retrocessione in serie B è dietro l’angolo. Ma come?
I processi di innovazione crescono con ritmi esponenziali e in sede solo nazionale o anche soltanto europea sarebbe del tutto velleitario (e destinato all’insuccesso) ripartire da zero in alcuni segmenti strategici dell’innovazione.
Non dobbiamo aver paura di attingere know-how e collaborazione tecnologici da paesi alleati ed amici anche fuori dell’Europa. Il punto centrale è non essere subalterni e negoziare uniti da una posizione di forza.
Penso a quanto è già avvenuto in Italia e anche in Francia (con l’accordo tra Thales e Google).
La cybersecurity del Polo Strategico Nazionale promossa dall’ Agenzia per la Difesa e il programma della digitalizzazione della PA da Consip va in questa direzione.
In questi casi l’apporto tecnico di Big Tech come Google, Microsoft e Amazon si colloca, infatti, nella posizione corretta di partner tecnologico rispetto alle grandi imprese nazionali (Sogei, Leonardo) ed europee come Tim.
Concludo con un suggerimento per l’amico Enrico Prati e per il gruppo di lavoro sulle tecnologie disrupting che egli coordina da più di un anno all’ interno del Centro Studi Americani. Il metodo scientifico – per citare le parole di Karl Popper – si basa su un continuo processo di falsificazione di teorie, scoperte e esperimenti.
Per questo la comunità scientifica e umanistica del nostro paese dovrebbe esaminare con maggiore spirito critico tutti i progetti che vanno per la maggiore. Non è, infatti, oro tutto quello che luccica.
Prendiamo la blockchain: perché non prendere in considerazione le critiche in materia di sicurezza formulate ad Harvard da Bruce Schneier e altri studiosi in giro per il mondo? Perché il progetto europeo Open Ran è in grave ritardo e langue?
Quando parliamo di Metaverso perché non considerare l’impatto negativo in termini di digital dependence e di altre sofferenze psicologiche (per esempio in campo sessuale già emerse con il cosiddetto sexting). Non si tratta di censurare, ma di studiare per informare e tutelare soprattutto adolescenti e minori, ma anche gli adulti.
Cosa dire, infine, in materia di fusione nucleare tornata di moda con la crisi energetica e con la guerra in Ucraina. L’Italia ha fatto bene o male ad abbandonare Ignitor per concentrare tutti i finanziamenti su Iter, un progetto europeo (tra l’altro con il gigante nucleare russo Rosatom ancora coinvolto)? Quando si parla di ricerca scientifica è sempre sbagliato concentrare tutto su un solo progetto.
Ricordo poi che la Corte dei Conti europea ha segnalato recentemente grave ritardi ed errori di Iter. Quanto meno meriterebbe un monitoraggio attento di carattere sia sotto il profilo tecnico-scientifico, ma anche geopolitico e forse persino la sospensione provvisoria dei finanziamenti da parte italiana e della Ue.
Più in generale rispetto al ruolo dell’Italia (Eni, Cnr, Enel, Enea ecc.) nel campo della fusione nucleare il Ministri Adolfo Urso e Anna Maria Bernini non farebbero male ad ordinare un check up che insieme alle strutture ministeriali includa i migliori scienziati disponibili.