Con l’allentamento dei vincoli agli aiuti di Stato la competizione tra Paesi membri si fa più agguerrita e il Paese deve attrezzarsi a sostenerla, in particolare superando senza indugi le debolezze evidenti anche nell’attuazione del Pnrr. Non farlo significherebbe accettare di restare indietro e rimanere nella palude del basso sviluppo. L’analisi di Salvatore Zecchini
Di fronte alle sfide che pongono gli shock della crisi energetica, della guerra in Europa Orientale, dell’arretramento della globalizzazione nella produzione e negli scambi, e dell’agguerrita competizione per la supremazia tecnologica tra le grandi potenze, l’ultima decisione della Commissione Europea di modifica della disciplina sugli aiuti di Stato non può che essere se non un limitato contributo per impostare un’adeguata risposta a livello europeo. Se le future mosse si fermassero ad introdurre soltanto altri aggiustamenti a quanto già statuito con il Green Deal Industrial Plan e a far leva sui programmi settoriali esistenti, il risultato sarebbe una fiacca reazione dell’Ue alla grandezza delle sfide e un rinvio della palla ai singoli Stati e alla loro capacità di mettere in campo strategie e risorse adeguate.
Ancora una volta l’Unione mostra i limiti dell’azione in comune, particolarmente se confrontata con il massiccio piano americano, l’Inflation Reduction Act (Ira), che non trae la sua forza dalla sola entità dei finanziamenti stanziati, ma dall’ampia articolazione degli interventi, dalla celerità di approvazione, dall’immediato avvio dell’attuazione e dalla cruciale capacità di attrarre notevoli capitali privati dall’interno e dall’estero. L’Unione non ha in corso una gara con gli Usa, quanto piuttosto una rincorsa per non restare indietro e non accentuare la sua dipendenza dall’America, che lungi dal rafforzarla, ne restringe gli spazi di autonomia d’azione.
Nel febbraio scorso la Commissione aveva sottoposto alla consultazione degli Stati membri una proposta che nell’ampiezza dello spettro d’azione e nella gamma di strumenti ricalca il piano americano. In parallelo si è avviato il negoziato con gli Usa per estendere alle imprese europee la possibilità di accedere agli aiuti americani. Su questo versante si è ottenuta qualche concessione e soprattutto la riaffermazione dello spirito di grande collaborazione, tanto più necessaria in questo periodo in cui l’alleanza Usa-Europa deve mostrare compattezza nel fronteggiare l’ostilità di altri grandi paesi. In particolare, sono stati ammessi a limitate sovvenzioni americane, previste dall’Ira, i veicoli commerciali di produzione europea e si sta concludendo un accordo per estenderle, con un limite d’aiuto più basso, alla produzione europea di materie critiche per le batterie americane.
Le ultime decisioni della Commissione nel quadro del Temporary Crisis and Transition Framework (Tctf) non danno attuazione a tutte le misure prospettate a febbraio, né vengono incontro ad alcune preoccupazioni espresse da parte italiana e di altri paesi, che non dispongono di margini di risorse comparabili a quelli delle maggiori economie europee per sostenere le loro industrie. Delle nuove norme sugli aiuti pubblici, nondimeno, trae beneficio anche l’Italia, perché le lascia più spazio di manovra nel sostenere settori e classi di imprese ritenuti prioritari per lo sviluppo del Paese. In concreto, si elevano i massimali di aiuto entro cui non è necessaria la notifica preventiva e l’approvazione a priori di Bruxelles. Al tempo stesso, si facilita il compito di superare le remore e le carenze della pubblica amministrazione per imprimere più efficacia all’attuazione degli interventi.
Il nuovo regime degli aiuti, infatti, intende rispondere alle esigenze di rapidità nell’erogazione dei finanziamenti, chiarezza e semplicità nella definizione delle regole, nonché focalizzazione sulle tecnologie chiave per la transizione verde, ma con allargamento all’intero ambito industriale che è coinvolto nella loro realizzazione. Di riflesso, si vuole stimolare l’innovazione per accelerare il trasferimento dei risultati della ricerca alle applicazioni produttive. La rapidità discende dall’innalzamento dei massimali e la semplicità dal concentrarsi principalmente su un metro basato sull’intensità di aiuto in rapporto al costo dell’investimento.
Altrettanto cruciale è l’insieme delle condizioni che accompagnano il maggior spazio concesso alle incentivazioni nazionali, vincoli che mirano ad alleviare le disparità tra Stati membri nella capacità finanziaria, prevenire la concorrenza tra Stati membri nel concedere sovvenzioni, e favorire lo sviluppo delle regioni arretrate. Non si tratta, quindi, di libertà di aiuti, in quanto le nuove regole hanno sia durata transitoria, ovvero fino al 2025, sia carattere selettivo, essendo orientate alle transizioni ecologica ed energetica e con vincoli nelle modalità.
Non tutto è così ben definito come si enuncia. Parecchi comparti delle nuove tecnologie come robotizzazione, bioingegneria, scienze mediche, intelligenza artificiale, nuovi materiali ed altro, per beneficiare delle nuove regole dovrebbero essere riconducibili alla transizione verde ed energetica. Si ammette, inoltre, la possibilità a certe condizioni di valicare i limiti di aiuto per corrispondere a quello offerto da un Paese extra-Ue a un progetto d’investimento per la produzione “di tecnologie verdi” che è a rischio di delocalizzazione, oppure per incentivarne la collocazione all’interno del Mercato Unico. Qui si aprono spazi di indeterminatezza e flessibilità che non si possono definire in anticipo e si prestano a possibili distorsioni.
I Paesi con maggiori capacità finanziarie sono certamente favoriti, benché siano vincolati a investire solo in aree svantaggiate. Avrebbero una maggior libertà d’azione se coinvolgessero almeno tre paesi membri o più aree svantaggiate, mentre sarebbe precluso ogni aiuto tendente alla ricollocazione di un progetto da uno Stato all’altro dell’Unione. Molto dipenderà da come saranno applicate sia le nuove regole della Tctf, sia la revisione di quelle della General Block Exemption, che è stata introdotta in parallelo per facilitare tra l’altro la transizione verde.
L’esenzione in blocco, tuttavia, dilata oltre questo campo l’allentamento della disciplina sugli aiuti. Vi sono incluse anche le misure per regolare i prezzi dell’energia, la formazione e riqualificazione delle competenze, il finanziamento dei progetti multinazionali Ipcei, le spese di ricerca, sviluppo ed innovazione, e l’innalzamento dei massimali (per le notifiche ex-ante) in campi al di fuori di quelli considerati nella transizione ecologica. L’estensione dell’esenzione tocca anche la durata delle regole, che è prolungata al 2026 per offrire una stabile prospettiva agli investitori.
Fin qui si articola la reazione europea alla sfida americana dell’Ira. Non si affronta, invece, l’aspetto della difesa alla frontiera dalla concorrenza di Paesi esterni all’Ue attuata con le loro sovvenzioni. L’applicazione di dazi compensativi dei sussidi alle produzioni extra-Ue sono di particolare rilevanza per difendersi dalla concorrenza cinese e asiatica in generale, ma anche da quella britannica, che una volta uscita dall’Ue professa di essersi liberata dai vincoli comunitari. Chiarezza su questo versante è necessaria, al pari di quello delle risorse da mobilitare per il duplice compito della conversione al “verde” dell’apparato industriale e dei servizi, e dell’impulso all’avanzamento nelle tecnologie strategiche e nella loro diffusione tra tutte le imprese, comprese le piccole.
Non si parla della costituzione del Fondo sovrano europeo, contro cui si sono pronunciati diversi paesi del centro-nord, ma che mira a mantenere l’Ue alla frontiera del progresso nelle tecnologie critiche. Resta, peraltro, la consapevolezza che la competitività dell’industria e più in generale del sistema produttivo europeo non può fondarsi sugli aiuti pubblici, né sui finanziamenti dell’Ue. Occorre piuttosto fare perno sulle condizioni per attrarre grandi capitali privati, in particolare per poter attingere a un grande mercato unico europeo dei capitali, che è ancora da costituire. Su questo punto la Commissione insieme ai rappresentanti del Consiglio, della Bce, dell’Eurogruppo e della Bei ha lanciato un appello per armonizzare le normative finanziarie degli Stati e superare gli altri ostacoli che si frappongono.
Indubbiamente questa è una condizione per sostenere il grande sforzo necessario per rilanciare la competitività europea, ma è erroneo pensare che sia la condizione principale. È ancor più necessario creare un ambiente favorevole all’iniziativa imprenditoriale e puntare sull’efficienza nella produzione, l’investimento in ricerca ed innovazione, il miglioramento delle competenze e una amministrazione pubblica efficiente e di supporto.
Molti altri punti delle proposte di febbraio della Commissione restano inattuati in un iter negoziale non ancora concluso. Qual che siano i prossimi sviluppi è evidente sin d’ora che l’Italia si troverà esposta a una concorrenza più agguerrita di prima, particolarmente all’interno del mercato unico. In altri termini, dovrà fare il miglior uso possibile della nuova libertà di aiuti in un quadro di risorse inferiori a quelle dei maggiori concorrenti. La via maestra sta nel procedere a una radicale ristrutturazione del sistema degli aiuti, prendendo anche spunto da alcune proposte della Commissione del febbraio scorso. Ad esempio, occorre concentrare le risorse sui nuovi crinali tecnologici in espansione e sulla conseguente riconversione industriale. Soprattutto occorre estrarre più valore per ogni euro di incentivo o sovvenzione, risultato finora non raggiunto.
Secondo l’ultimo rapporto del ministero competente sulle sovvenzioni alle imprese, che si riferisce al 2021, il sostegno cruciale ai progetti di ricerca ed innovazione ha rappresentato appena il 4,9% del totale. Il dato, tuttavia, è distorto verso il basso a causa dello straordinario balzo dei sostegni al settore energetico e al contrasto della pandemia. Se si ridimensionasse questa spesa al livello del 2018, la quota andata a R&I salirebbe al 10,6%%, che è una percentuale ancora nettamente inferiore al 16,9% del 2018. Nonostante la professione di fede nel ruolo cruciale della ricerca ed innovazione, l’Italia le sostiene molto meno di quanto assegni ad altre finalità. In contrasto, si è speso troppo per i vari bonus per incentivare l’edilizia con risultati inferiori alle aspettative. Con una spesa di 120 miliardi di incentivi all’edilizia si sono ottenuti nel 2022 circa 30 miliardi di investimenti aggiuntivi secondo varie stime dei centri di ricerca. Il loro contributo alla crescita del Pil nel 2022 è stimato attorno a 1,7 punti percentuali su 3,7 % in totale.
Occorre più lungimiranza ed efficienza nell’allocazione delle risorse in funzione di uno sviluppo più rapido e duraturo delle tendenze attuali. Con l’allentamento dei vincoli agli aiuti di Stato la competizione tra Paesi membri si fa più agguerrita e il Paese deve attrezzarsi a sostenerla, in particolare superando senza indugi le debolezze evidenti anche nell’attuazione del Pnrr. Non farlo significherebbe accettare di restare indietro e rimanere nella palude del basso sviluppo.