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Riscoprire la bellezza per un’estetica della vita quotidiana. La lettura di Malgieri

Susanna Manzin ha toccato con mano lieve un tema che affiora di tanto in tanto nelle discussioni culturali. Il suo libro è un vademecum per ricordarci fino a che punto possiamo spingerci nel dimenticare ciò che merita di essere ricordato. Gennaro Malgieri ha letto per Formiche.net “La bellezza a portata di mano”, D’Ettoris Editori, di Manzin e la prefazione di Laura Boccenti e i contributi di Andrea Arnaldi, Stefano Chiappalone, Luca Finatti, Roberto Respinti

La bellezza è dentro di noi, nelle cose che ci circondano, che abitiamo, che usiamo, che maneggiamo perfino con noncuranza senza darle quasi mai peso. Viene un  momento, comunque, che in un particolare stato di grazia, inondati dal silenzio o accarezzati da un vento mite, tra colori che richiamano tutti insieme la strepitosa gioia dell’universo, in cui ci accorgiamo che la bellezza si sta manifestando in forme semplici o grandiose, comunque in grado di vederla, toccarla, sentirla, apprezzarla, glorificarla con un nostro pensiero gentile.

È la bellezza del creato che ci avvolge nella più discreta quotidianità. Normalmente nascoste nelle pieghe dello stato ordinario dell’esistenza, nella routine che talvolta ci travolge facendoci cadere in un baratro di noia, negli incontri e nella conviviale empatia che si stabilisce a tavola, in una gita, nel corso di un viaggio, nelle mille occasioni di incontro perfino con sconosciuti. È l’estetica della vita quotidiana che non sempre sappiamo cogliere, ma che dà, impercettibilmente il più delle volte, il senso alla nostra esistenza la quale, al contrario, nella maggior parte delle occasioni sembra vuota, talmente leggera da non sentirla.

Nel suo smagliante libro La bellezza a portata di mano (D’Ettoris Editori, pp. 178, euro 16,90) – con la prefazione di Laura Boccenti ed i contributi di Andrea Arnaldi, Stefano Chiappalone, Luca Finatti, Roberto Respinti Susanna Manzin, curatrice dell’originalissimo blog Pane & Focolare, narratrice che alla bellezza appunto si ispira – linguistica, etica, morale, religiosa – ci offre deliziose pagine per cogliere nella nostra impalpabile estetica quotidiana un “modo d’essere” legato a forme di vita senza tempo. Esplicitate da una frase posta in esergo ad un capitolo di Giovanni Lindo Ferretti: “La stanza, gli oggetti, la casa, le finestre aperte sul paese e sulle montagne intorno mi allargano il sorriso. Non sono solo, non sono qui per caso, molto mi ha preceduto, qualcosa mi seguirà. Non posso che rendere grazie, accettare limiti ed opportunità, ben disposto a un nuovo giorno”. Ecco, queste poche parole sono la sintesi della bellezza “a portata di mano” cui aggiungerei una citazione di un giovane frate cappuccino che l’autrice riporta, per rendere più vivido il significato della preziosità della bellezza stessa: “La vita è breve, il tempo a disposizione si accorcia sempre di più. Occorre sollevare lo sguardo, dare senso alla nostra esistenza, riempirla di contenuti alti, belli, grandi”.

Ma da dove incomincia la percezione della bellezza come “estetica del quotidiano”? Non ha dubbi la Manzin: dalla famiglia, dal focolare domestico. Il primo nucleo vitale che è al centro delle società è il dono più sacro fatto da Dio agli esseri umani ai quali li gratificò  del fuoco intorno al quale stringersi per raccontarsi le storie della loro vita, per desinare insieme, per guardare oltre la fiamma i segni del Creato, per sentirsi comunità, come in un monastero benedettino. Davanti al focolare, davanti alle fiamme che racchiudono tanti significati si forgiava nelle aggregazioni tradizionali il sentimento dell’autorità, non dell’autoritarismo, che ispirava il culto della bellezza dello stare insieme, del condividere patimenti e gioie e davanti al quale le generazioni si tenevano metaforicamente per mano come nel gruppo marmoreo del Bernini rappresentante gli avi portati da Anchise che si tiene sulle spalle di Enea al quale dà la mano il piccolo Ascanio fuggendo da Troia.

La bellezza e la profondità sacrale della famiglia contornata dalle fiamme della città sconfitta è un mistero di religiosità di fronte alla quale non possiamo che cogliere la nostra ambizione di ripetere la stessa catena generazionale. “La nostra società è più che mai bisognosa di famiglie che tornino ad essere fuochi, luoghi di amore e di trasmissione di valori forti in mezzo alle rovine del relativismo e del pensiero debole. Ci vuole creatività, coraggio, amore, fedeltà”, annota la Manzin.

In questo libro intriso di eleganza formale e di concretezza sostanziale, c’è il riverbero di un sorriso sacrale che l’autrice ed i suoi collaboratori richiamano sottilmente seppur non esplicitamente, quando si soffermano sulla noia e la gioia riportando una frase del pensatore conservatore americano, autore di Opzione Benedetto, Rod Dreher: “Prendete le distanze dai media correnti. Spegnete la televisione. Mettete via gli smartphone. Leggete libri. Fate giochi. Componete musica. Fate festa con i vicini di casa. Non basta evitare ciò che è male: si deve anche abbracciare ciò che è bene. (…) Aprite una scuola cristiana classica o unitevi ad una che esiste già per rinforzarla. Piantate un giardino e partecipate ad un mercatino locale di agricoltori. Insegnate la musica ai bambini e mettete in piedi una banda. Unitevi al corpo dei pompieri volontari”. Una sintesi efficace della bellezza come estetica quotidiana. Alla quale la Manzin aggiunge la riflessione di un monaco che non si può non condividere: “Perché le cose più buone ce le hanno i monaci? … Perché chi è allenato alla presenza del Signore, a servirlo perché lo riconosce in qualcosa di sacro, comprende che il profano è ugualmente sacro e per questo fa tutto con amore, con cura, con dedizione, con passione, con totalità, con gusto, perché riesce ad avere cura di una cosa che normalmente consideriamo banale, rallentando, gustando, mettendoci dentro tutto se stesso. Ecco, quando si riesce a fare questo, si tira fuori la sacralità del resto della creazione, di una pietra, di una pianta, di un posto, di un libro”.

Il tutto quando è amato profondamente testimonia e rivela la presenza del Signore. Ed è questa presenza che nelle apparenti banali cose che formano il tessuto della bellezza che la Manzin sottolinea nelle pagine del suo libro ispirato e ispirante per chi cerca di cogliere nella realtà la presenza del sacro, come insegnava il grande Gustave Thibon.

La pratica dell’empatia, l’esercizio alla bella scrittura, lo sguardo al mondo della natura (purtroppo deturpato: una lattina di birra, dice la Manzin, può distruggere l’armonia di un grande e affascinante vigneto…), l’apparecchiatura di una tavola e la convivialità come modo di ritrovarsi attorno a cibi e bevande buone perché benedette dalla sacralità divina che governa i cicli delle stagioni nelle quali si possono gustare pietanze diverse purché fatte con amore, il galateo come manuale di comportamento: tutto questo e molto altro appartiene all’estetica del quotidiano che nasce dalla bellezza.

Susanna Manzin ha toccato con mano lieve un tema che affiora di tanto in tanto nelle discussioni culturali nelle quali, tuttavia, non c’è quasi mai un richiamo all’ordine sacrale che determina l’apparizione della bellezza e ce la fa riconoscere. Il suo libro è un vademecum per ricordarci fino a che punto possiamo spingerci nel dimenticare ciò che merita di essere ricordato.

Su una cosa mi permetto di non essere d’accordo: il punto in cui l’autrice dice che il libro è “pieno di banalità, un inno all’ovvio”. Ciò che presenta queste caratteristiche è proprio quello che ci manca in questo primo ventennio del Terzo Millennio dove si getta dalla finestra e dall’anima tutto ciò che è semplice per correre dietro rumorosi e volgari effetti speciali che di bello non hanno niente, di brutto tutto ciò di cui sono fatti, a cominciare dai finti sorrisi e dalle lacrime a vantaggio di telecamere che spacciano l’effimero come verità assoluta.

 


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