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Che effetto avrà l’intesa Riad-Teheran sullo Yemen. Il punto di Ardemagni

L’esperta (Ispi/Cattolica) sottolinea come l’accordo siglato a Pechino potrà permettere il prolungamento della tregua, ma le complessità interne allo Yemen complicano il percorso di pace. E la Cina? “Un facilitatore ‘modello Oman’”

L’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, Hans Grundbergha dichiarato mercoledì che sono in corso intensi sforzi diplomatici per porre fine alla guerra che dura da otto anni. Ha citato nuovi impulsi regionali e internazionali, tra cui il recente ripristino dei legami diplomatici tra Arabia Saudita e Iran — Teheran sostiene informalmente i ribelli Houthi, Riad è alla guida della coalizione che sta cercando di sconfiggerli.

Il devastante conflitto in Yemen è iniziato nel 2014, quando gli Houthi si sono impadroniti della capitale Sanaa e di gran parte del nord dello Yemen, costringendo il governo all’esilio. Una coalizione a guida saudita, comprendente anche gli Emirati Arabi Uniti, è intervenuta nel 2015 per cercare di riportare al potere il governo riconosciuto a livello internazionale. Una tregua sostenuta dalle Nazioni Unite, inizialmente entrata in vigore nell’aprile 2022, aveva fatto sperare in una pausa più lunga dei combattimenti, ma è terminata il 2 ottobre dopo soli sei mesi. Attualmente il conflitto è rallentato, con una serie di dinamiche diplomatiche che fanno ben sperare.

Notizie positive da una guerra dimenticata

Il diplomatico onusiano svedese ha detto, parlando al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che c’è stato anche “un cambiamento nella portata e nella profondità delle discussioni” e ha esortato il governo yemenita riconosciuto a livello internazionale e i ribelli Houthi a “cogliere le opportunità” create dal nuovo slancio. Grundberg, sottolineando lo sforzo diplomatico saudita e omanita, ha anche indicato i progressi nei colloqui per lo scambio di prigionieri tra governativi e ribelli, guidato dalle Nazioni Unite e dal Comitato internazionale della Croce Rossa.

Anche Joyce Msuya, vice segretario generale delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari, ha dato notizie positive: il numero di persone che soffrono la fame in Yemen è diminuito di quasi 2 milioni, e il numero di persone al livello inferiore, che rischiano la carestia, è sceso a zero. Ciononostante, ha precisato, “lo Yemen rimane un’emergenza sconcertante”, con oltre 17 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza, i finanziamenti che scarseggiano e i problemi economici che “spingono ancora più persone verso l’indigenza”. In una conferenza di due settimane fa, più di 30 donatori hanno promesso 1,16 miliardi di dollari per l’assistenza umanitaria al Paese per il 2023. Msuya ha accolto con favore lo sforzo, ma sottolineato che si tratta del livello più basso dal 2017 e molto al di sotto dei 4,3 miliardi di dollari di cui ci sarebbe bisogno per aiutare tutte quelle persone.

Narrazioni e interessi

Il vice ambasciatore cinese all’Onu, Geng Shuang, ha definito il ristabilimento delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran “una notizia edificante per il mondo di oggi, pieno di incertezze e instabilità”. Poi — intervenendo dopo Grundberg — ha aggiunto che Pechino “ha introdotto un elemento positivo nel panorama della pace, della stabilità, della solidarietà e della cooperazione della regione”, esprimendo la speranza che “possa anche creare condizioni favorevoli al miglioramento della situazione nello Yemen”, perché “la Cina è pronta a continuare a impegnarsi senza sosta per risolvere la questione yemenita e mantenere la pace e la stabilità in Medio Oriente”.

Il vice ambasciatore statunitense, Jeffrey DeLaurentis, ha dichiarato a sua volta di sperare che l’accordo tra Arabia Saudita e Iran “contribuisca agli sforzi per garantire una soluzione duratura al conflitto nello Yemen, affronti il continuo flusso di aiuti letali iraniani agli Houthi e garantisca il sostegno iraniano al processo politico yemenita”. Negli stessi giorni, il comandante del Comando Centrale statunitense faceva notare che per cinque volte soltanto nell’ultimo mese la US Navy ha bloccato carichi di armi iraniane dirette allo Yemen. Queste spedizioni di mercantili e dhows si sono intensificate durante la tregua, ma la Cina ha dichiarato di aver ricevuto garanzia dell’Iran che verranno fermati dopo l’accordo con Riad.

Guerra per procura?

L’Iran non ha mai pubblicamente ammesso di inviare armi agli Houthi, ma un paio d’anni fa ha dichiarato di fornire un “advisory support” alle attività del gruppo. Tuttavia che i Pasdaran riforniscano i ribelli yemeniti è noto: ora Pechino lo ha, per via traversa, reso pubblico. Lo Yemen sarà il primo dossier in cui si valuterà il valore dell’intesa Riad-Teheran? “In parte l’intesa si misurerà soprattutto dall’assenza di attacchi contro il territorio saudita ed emiratino, o contro i loro interessi commerciali e marittimi. Quindi da ciò che faranno anche gli Houthi in Yemen, che però si erano già fermati nel colpire Riad e Abu Dhabi dall’inizio della tregua”, risponde Eleonora Ardemagni, ricercatrice associata presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), cultrice della materia all’Università Cattolica di Milano.

Secondo Ardemagni, l’accordo tra Arabia Saudita e Iran non deve alimentare attese eccessive rispetto allo Yemen: “Potrà facilitare il prolungamento della tregua, ma non potrà costruire la pace tra gli attori interni, che sono molti di più”, spiega a Formiche.net. “Quella in Yemen — continua — non è una guerra per procura. Sauditi e iraniani (ma anche sauditi ed emiratini) giocano in Yemen una lotta d’influenza. Le origini del conflitto sono però interne: per il potere politico, il controllo delle risorse e le autonomie locali. Il grande equivoco è considerare gli Houthi come proxy dell’Iran: più volte, essi hanno giocato il ruolo degli attori per procura per convenienza, ma non lo sono. Soprattutto, gli Houthi ricevono armi e munizioni dall’Iran, ma non dipendono economicamente da Teheran, a differenza di altri attori armati filo-iraniani nella regione, perché controllano l’economia del nord ovest più i network informali ed illegali”.

Limiti evidenti

Pertanto, l’Iran non è in grado di esercitare una pressione determinante sugli Houthi, qualora essi non siano soddisfatti dei termini di un eventuale accordo con i sauditi, secondo l’esperta. Altrettanto “dalla sua prospettiva, l’Arabia Saudita potrebbe sfruttare ora l’accordo con l’Iran per trovare un’intesa specifica con gli Houthi, incentrata sulla sicurezza del confine saudita-yemenita. Di fatto, sarebbe il congelamento della dimensione più regionale del conflitto. E rappresenterebbe l’exit strategy dallo Yemen che Riad cercava da tempo per declassare il conflitto, nella sua agenda, a ‘piccola guerra locale'”.

Questa settimana, l’inviato speciale degli Stati Uniti per lo Yemen, Tim Lenderking è volato a Riad e Muscat per riaffermare il peso americano sul dossier. “La tregua e il conseguente periodo di calma reso possibile dalla diplomazia statunitense a partire dal 2021 hanno salvato migliaia di vite, portato un sollievo tangibile a milioni di yemeniti e creato la migliore opportunità di pace che lo Yemen abbia avuto da anni”, diceva la dichiarazione del dipartimento di Stato americano che raccontava il viaggio. Negli stessi giorni Grundberg ha iniziato una visita in Iran dove ha incontrato ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian, e altri alti funzionari a Teheran.

Quanto andrà in profondità la Cina?

Il viaggio di Lenderking ha avuto una tempistica immediata dopo l’accordo iraniano-saudita siglato a Pechino. Probabilmente casuale, o forse Washington voleva segnare la sua presenza in uno dei dossier più difficili della regione. Ma la Cina ha intenzione di fare sul serio in Medio Oriente? “Vedo la Cina più come un facilitatore ‘modello Oman’ che non come un garante, perché questo implicherebbe una presenza, nonché una ‘voce’ politica più marcata”, risponde Ardemagni. La capacità di essere economicamente centrale eppure politicamente equidistante tra Riad e Teheran è ciò che ha permesso a Pechino di cucire l’ultimo miglio dell’accordo, spiega l’esperta ricordando che che esso non affronta alcuna delle questioni che dividono sauditi e iraniani (il programma nucleare e quello missilistico iraniano oppure il ruolo delle milizie sciite proxy di Teheran).

Sappiamo che l’intesa è frutto di una mediazione intra-regionale, quindi araba, durata anni. E dunque, perché la firma in Cina? “Credo che sauditi e iraniani si fidino della Cina perché sanno che Pechino dipende fortemente da un Golfo stabile, per energia e vie marittime-commerciali. Tutti ormai dipendono dal Golfo, ma per Pechino è davvero la porta d’accesso ai mercati europei e africani, nonché lo snodo terrestre e marittimo della Belt and Road Initiative. E la firma della potenza cinese dà uno standing all’intesa che iracheni e omaniti non avrebbero potuto dare. Arabia Saudita e Iran sono e si percepiscono come due potenze regionali: ci voleva una potenza più grande, quindi globale, che offrisse loro un palcoscenico adeguato. Anche il potere è teatro!”.

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