Da quasi 30 anni a questa parte 25 milioni di italiani più poveri della popolazione adulta hanno visto la propria quota di ricchezza ridursi di circa tre volte. E ormai solo pochi pensano che la propria situazione non cambierà. La fotografia di Riccardo Pedrizzi
Dalla metà degli anni novanta, 25 milioni di italiani più poveri della popolazione adulta hanno visto la propria quota di ricchezza sul totale ridursi di circa tre volte e oggi hanno un patrimonio medio di circa settemila euro. Attualmente quasi sei milioni di persone sono in povertà assoluta.
I rapporti Istat e Svimez raccontano di un’Italia che, anche per la pandemia, ha visto la povertà sempre più allargarsi a nuove fasce di popolazione: dai piccoli lavoratori autonomi ai piccoli artigiani, e tanto più nelle fasce di età più avanzate. Il virus ha ampliato le disuguaglianze delle persone in condizioni di indigenza che è cresciuta fortemente. Ciononostante nel nostro Paese ancora solo il 10% dei trasferimenti pubblici va alle famiglie più povere mentre, ad esempio, in Francia il 20%.
E più crescono le disuguaglianze più l’ascensore sociale rallenta con la prospettiva che la transizione ecologica, pur indispensabile avrà costi elevati, che ricadranno sulle classi meno abbienti. Secondo la Banca d’Italia, le famiglie italiane sono meno ricche ed hanno debiti per mille miliardi. L’Italia tra i grandi Paesi è quello dove la ricchezza è cresciuta meno negli ultimi anni. Infatti alla fine del 2021 la ricchezza netta delle famiglie italiane, sommando le attività reali (abitazioni terreni ecc. ecc.) e finanziarie (depositi, titoli, azioni ecc. ecc.) era pari a 10.422 miliardi (176 mila euro pro capite).
La ricchezza è aumentata di oltre 300 miliardi a valori correnti, con una crescita del 3% rispetto all’anno precedente, ma in termini reali la ricchezza si è ridotta dell’1,1%, in controtendenza rispetto al 2020, quando era aumentata dell’1,7%. L’andamento al ribasso si riscontra anche in rapporto al reddito. Il confronto internazionale non è peraltro lusinghiero. Misurati in rapporto alla popolazione, quei 176 mila euro di ricchezza netta pro capite delle famiglie era alla fine del 2021 inferiore a quella di tutti gli altri Paesi, ad eccezione della Spagna. Negli ultimi anni, soprattutto nel 2021, la crescita per l’Italia è stata infatti più lenta rispetto a quella degli altri Paesi.
Questa situazione presumibilmente continuerà a peggiorare, perché l’inflazione ridurrà ulteriormente il potere di acquisto di stipendi e salari. Infatti nel 2022 i prezzi al consumo hanno registrato una crescita dell’8,1%: si tratta dell’aumento più ampio dal 1985 (quando fu +9,2%).
Le previsioni per il 2023 se i prezzi rimanessero stabili è al +5,1%. Ma l’inflazione non è uguale per tutti. L’Istat ha valutato i diversi effetti dell’inflazione sulle famiglie distinte per livelli di consumo, ha diviso le famiglie in cinque classi (quinti) di pari numero: nel primo gruppo sono presenti le famiglie con la spesa mensile più bassa (i meno abbienti) e nell’ultimo quelle con la spesa mensile più alta.
L’inflazione risulta pesare di più per le famiglie del primo gruppo – quello con minori disponibilità – rispetto a quelle del quinto gruppo. In particolare, per le famiglie del primo quinto, l’inflazione in media d’anno è di 9,7 punti percentuali passando da +2,4% del 2021 a +12,1% nel 2022, mentre per quelle del quinto gruppo, accelera da +1,6% dello scorso anno a +7,2%, del 2022. Pertanto, rispetto al 2021, il peso inflazionistico tra la prima e la quinta classe si amplia a ben 4,9 punti percentuali. L’analisi degli andamenti, mostra come, per le famiglie con minori capacità di spesa, l’inflazione cresca in maniera marcata sin dal primo trimestre dell’anno, passando da +4,7% dell’ultimo trimestre 2021 a +8,3%, proseguendo con accelerazioni della crescita sia nel secondo (+9,8%) che nel terzo trimestre (+11,6%) fino a portarsi a +18,4% nel quarto trimestre dell’anno.
Ma non basta perché alle differenze di reddito – ed i redditi più bassi sono nel Mezzogiorno d’Italia – si aggiungono le differenze geografiche. Anche per questa analisi, diviso il Paese in cinque aree, l’inflazione incide di più nelle isole (rallentamento da +14,1% a +13,9% ed in città come Catania (+14,7%), Palermo (+14,6%) e Messina (+13,9%). A causa di questa situazione così pesante, gli italiani stanno tagliando tutti i consumi che vanno dai viaggi e dal tempo libero alle spese mediche.
Emerge cioè una preoccupazione crescente, tanto da innescare tagli a tutta la spesa. La maggior parte degli italiani infatti pensa che l’inflazione durerà nel tempo, con aumenti costanti e che il generale aumento dei prezzi inciderà anche nel futuro sulle scelte di consumo della propria famiglia. Molti italiani hanno deciso di posticipare o cancellare spese che avevano messo in programma di fare a causa proprio del caro prezzi. Un terzo addirittura ha cancellato spese sanitarie, come il dentista, interventi chirurgici o visite di controllo. Tanti dicono di aver cancellato o rimandato acquisti di beni elettronici, di elettrodomestici o arredi.
C’è chi rinuncia alle spese per l’abbigliamento, mentre tra i pochi che avevano in programma l’acquisto di gioielli o automobili solo una piccolissima minoranza dichiara di volerli portare a termine. Molti italiani faranno viaggi e vacanze più brevi, con destinazioni più economiche o più vicine.
La metà dei nostri concittadini ridurrà anche le spese per la cura della persona (l’estetista o il parrucchiere). Solo pochi pensano che la propria situazione non cambierà. Ed è una situazione pesante quella che sta vivendo il nostro Paese, per cui bene ha fatto il governo della Meloni ad aprire a tutti i corpi sociali ed a rilanciare il dialogo con le forze sindacali ad iniziare dalla Cgil, al cui congresso il presidente del Consiglio è stato invitato e parteciperà.