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Oltre la polarizzazione? Parolin e Meloni a confronto sull’Atlante di Francesco

Il direttore de La Civiltà Cattolica Padre Antonio Spadaro, Sua Eminenza Pietro Parolin e il premier Giorgia Meloni si sono incontrati nella sede della storica rivista dei gesuiti per un dibattito che ha preso spunto dalla presentazione del libro di Spadaro “L’atlante di Francesco” sulla politica internazionale del papa. Dai valori cattolici ai nazionalismi, dai migranti all’Europa “senza anima” fino all’Ucraina, ecco cosa è stato detto

Utilizzare “il dono della comunicazione come un ponte e non come un muro”. Questa indicazione contenuta nel Messaggio per la giornata delle comunicazioni sociali di Francesco si è avvertita ieri nel salone de La Civiltà Cattolica, nella consapevolezza non solo dell’importanza ma anche delle difficoltà.

Il papa in quel messaggio parla di polarizzazioni e di urgenza di andare controcorrente. È un’esigenza che si respira, ma che non è facile perseguire. La scelta di “parlare col cuore” è stata rinnovata con il tradizionale incontro de La Civiltà Cattolica organizzato questa volta con il Segretario di Stato Vaticano e il presidente del Consiglio italiano che ha posto ieri a confronto il direttore della rivista dei gesuiti, padre Antonio Spadaro e il suo libro “L’atlante di Francesco”, sulla politica internazionale del papa, Sua Eminenza Pietro Parolin e il premier Giorgia Meloni, che negli anni non ha fatto mistero della sua vicinanza a un cattolicesimo più identitario. Dunque l’occasione aveva oggettivo rilievo.

La diplomazia spiegata da padre Spadaro in questo tempo di conflitti e quindi polarizzato si basa sul criterio essenziale per cui nessuno va mai considerato definitivamente perduto nei rapporti tra gli Stati” se si vogliono cambiare i processi storici. Il Segretario di Stato Vaticano da parte sua si è lungamente soffermato sulla necessità del multilateralismo, ricordando che oggi “due miliardi di persone vivono in aree afflitte dai conflitti” e “i pezzi della Terza Guerra mondiale vanno saldandosi tra di loro”: bisogna dunque che la diplomazia “non sia al servizio degli interessi nazionali” in modo da aprire la porta a “strategie innovative” per soluzioni “efficaci e sostenibili”. Amico dei popoli e delle loro differenze, Francesco è stato dunque presentato come animatore di una diplomazia consapevole che le grandi sfide sono tutte globali. Di qui l’attenzione alla fatica del multilateralismo e la preoccupazione per i semplicismi del nazionalismo.

Posta accanto a due pesi massimi, Giorgia Meloni ha detto di voler stare nel suo possibile, tentando di spiegare come lei intenda tradurre alcune indicazioni del papa nella realtà italiana. La cifra per cercare una reciproca comprensione. Difficile scegliere un’altra strada.

Così è partita dall’assunto bergogliano che ogni crisi può essere un’opportunità. Convenendo, ha fatto presente che per tradurlo in fatti italiani occorre una franca disamina; che è apparsa la descrizione di un declino proseguito fino ad oggi per un Paese che dal secondo dopoguerra non ha elaborato politiche adeguate sul piano industriale e della scelta delle proprie priorità di sviluppo.

Questo punto del suo discorso ha fatto percepire l’idea di un cammino progressivo verso la crisi vissuta non come opportunità ma come destino. I e II Repubblica, almeno così definite nel linguaggio comune, non sono state citate e quindi non sono risultate distinte. È uno dunque il filo che ha portato a una crisi determinata dalla riluttanza a scegliere, emersa in fin dei conti come una costante. Scegliere dunque è quello che adesso bisogna fare per trasformare la crisi in un’opportunità. Il punto è stato chiaro e una discussione più ampia avrebbe consentito di rapportarlo al caposaldo bergogliano dell’amicizia sociale.

Passando alla politica internazionale del nostro Paese, la presidente Meloni si è chiesta poi come rendere “una categoria filosofica” quale la misericordia, così cara a Francesco, una realtà politica nel contesto internazionale. La risposta è stata quella di scegliere “una cooperazione allo sviluppo non predatoria”. I riferimenti a un interscambio non predatorio, ma che lasci segni utili allo sviluppo nei Paesi in via di sviluppo, hanno fatto pensare che l’intenzione fosse quella di accostarsi alla fratellanza tra gli Stati, citata da padre Spadaro come la grande assente nella terminologia della politica internazionale. Quella che se riscoperta consentirebbe di ripensare le politiche del Fondo Monetario Internazionale e quindi del debito dei Paesi in via di sviluppo, tassello decisivo del sistema predatorio.

L’apertura alla misericordia è proseguita passando con più chiara evidenza ai migranti, quando la presidente Meloni ha accennato all’accoglienza dopo aver riaffermato la scelta di favorire “flussi legali”.

Il cardinale Parolin parlando con i giornalisti successivamente ha auspicato “corridoi umanitari”, che sembrano i flussi legali possibili per chi fugge da Paesi come l’Afghanistan, approdando poi in quelle che ormai sono “terre di transito” dove questi corridoi dovrebbero raggiungerli, per non escluderli. “È stato messo in rilievo – ha affermato Parolin – come le politiche molte volte sono di contenimento, di restringimento”, mentre “bisognerebbe passare a una politica più aperta, di accoglienza”.

Giorgia Meloni nel suo discorso aveva proseguito facendo riferimento alla recente tragedia, dicendo di avere la coscienza a posto per quanto accaduto a Cutro, con nettezza. È seguito un auspicio importante, ma per ora incompleto.

La presidente Giorgia Meloni infatti ha respinto la tesi che gli immigrati comunque servirebbero perché disponibili a svolgere lavori che gli italiani non vogliono più fare. A suo avviso invece sono disponibili a svolgere questi lavori a condizioni che gli italiani non accettano più e che non è giusto sussistano. Tecnicamente però non è stato chiarito il percorso per creare queste diverse condizioni.

Sul sostegno militare all’Ucraina la posizione da lei espressa è stata più o meno questa: non serve per vincere ma per impedire che la sconfitta dell’aggredito impedisca un negoziato di pace, perché in assenza di un equilibrio sul terreno è difficile immaginare che chi prevale accetti di negoziare. La presidente Meloni ha poi indicato nel Vaticano un credibile, possibile mediatore. Il cardinale Parolin al riguardo ha detto che si sta raschiando il fondo del barile della fantasia creativa per favorire il dialogo e che il punto di partenza dovrebbe comunque essere il cessate il fuoco.

Nel prosieguo dell’intervento della presidente Meloni i riferimenti a Francesco sono stati meno diretti. Ha indicato le difficoltà dell’Europa, dovute alla sua unità basata solo sugli interessi, ma per così dire “senza anima”. Questa anima mancante non è stata collegata alla riluttanza degli Stati membri alla cessione di quote di sovranità, venuta alla mente per le critiche del cardinale Parolin ai nazionalismi. Piuttosto l’ha collegata al mancato riferimento alle radici cristiane: non credo tanto come radici da confermarsi nelle scelte e nei comportamenti, ma nella Carta europea sebbene non espressamente citata.

La conclusione del suo discorso ha toccato questioni delicatissime, come la persecuzione dei cristiani – citando la Nigeria – e a lungo le tematiche del genere. Questioni sulle quali nel campo cattolico pesano, molto, i toni e i modi prescelti per affrontarle più che il lato del campo prescelto, vedendo o meno la complessità.

In definitiva l’impressione è stata che le ragioni del dialogo e quelle dell’identitarismo abbiano cercato di esprimersi nelle pieghe dei linguaggi. In un contesto mondiale segnato dalla polarizzazione parlarsi è una scelta che dà inizio al tentativo, non lo conclude; il prosieguo del cammino si vedrà col tempo. Ma tentare conta perché i problemi si aggravano quando religiosità e laicismo si impossessano del confronto, aprendo le strade alle cosiddette “guerre culturali”.

Durante il suo viaggio a Bratislava, Francesco mise in guardia proprio da questo: “Se noi guardiamo la storia della Chiesa, vedremo che ogni volta che i vescovi hanno gestito non come pastori un problema si sono schierati sul versante politico. Pensiamo alla notte di San Bartolomeo: eretici, sì, ma l’eresia è gravissima… sgozziamoli tutti… Pensiamo a Giovanna d’Arco, alla caccia alle streghe… A Campo di Fiori, a Savonarola. Quando la Chiesa per difendere un principio lo fa non pastoralmente, si schiera sul piano politico. Questo è sempre stato così, basta guardare la storia. Cosa deve fare il pastore? Essere pastore, non andare condannando”.

La tendenza di settori dell’episcopato americano, soprattutto ma non solo, non è questa.



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