Il decano della politica Casini ora senatore dem lancia l’esortazione a “tornare alla politica fatta con metodo, preparazione, competenza e radicamento al territorio”. Il Pd di Schlein dovrà “essere misurato sui fatti. La linea sull’Ucraina deve essere quella assunta da Letta”. E su Meloni: “Ineccepibile in politica estera”
“Non sono l’ultimo democristiano, ne vedo tanti in giro per l’Italia. La Dc non esiste più, ma noi resistiamo. Anzi, ci vorrebbe più metodo democristiano nella politica”. Pier Ferdinando Casini, punta di diamante della balena bianca, senatore del Pd, quando ci risponde è poco lontano dall’aula di Palazzo Madama. Ma, oltre alla sua attività di parlamentare, sta girando su e giù lo Stivale presentando “C’era una volta la politica” (Piemme). Un libro che già dal titolo “lancia diversi messaggi”.
Senatore Casini, partiamo da qui: c’era una volta la politica. Ora non c’è più?
Vede, il titolo è ambivalente. Da un lato rappresenta un’esortazione a tornare alla politica fatta con metodo, preparazione, competenza e radicamento al territorio. Dall’altro è la denuncia di un’assenza di politica nel Paese.
Non è, quindi, l’ultimo democristiano?
Quella del sottotitolo è stata una scelta della casa editrice. Di democristiani ce ne sono tanti in Italia. Fortunatamente non sono tutti morti, come la Dc.
A proposito di Dc, lei nel libro indica come suoi “maestri” Arnaldo Forlani e Antonio Bisaglia. Cosa hanno rappresentato per la sua formazione politica?
Sono stati i “maestri” perché li ho incontrati agli albori della mia esperienza di navigazione nel mare magnum della politica nazionale. Bisaglia ha rappresentato la quintessenza del radicamento territoriale. Lui era il Veneto. Ma d’altra parte non esisteva politico della Dc che non avesse questa caratteristica. Scotti a Napoli, Moro in Puglia, Taviani a Genova. Forlani invece fu un uomo che servì la politica, più che servirsene. La sua coerenza atlantista fu un esempio per me. Così come lo fu la sua rassegnazione cristiana dinnanzi al terremoto di Tangentopoli.
Negli ultimi anni questi fulgidi esempi sono venuti meno.
Di maestri non ne ho avuti solo agli inizi della mia carriera politica: ogni stagione ha le sue “guide”. Personalmente ho ammirato moltissimo l’operato dei presidenti Ciampi e Napolitano.
Come si sente in un Partito democratico che ha deciso di svoltare più a sinistra, con l’elezione di Schlein alla segreteria nazionale?
Mi sento benissimo, perché conservo la mia indipendenza. Sono iscritto al gruppo parlamentare per rispetto dei miei elettori bolognesi. Ma non ho neanche partecipato alle primarie. Da osservatore (interessato) mi limito a osservare che Bonaccini rappresentava una continuità, Schelin invece è una netta discontinuità. Forse questo elettroshock può anche fare bene al partito. Ma il banco di prova sarà la politica estera.
Cosa si aspetta?
La linea deve essere, su questo, in continuità con quella tracciata da Enrico Letta che è stata perfetta: atlantista e al fianco dell’Ucraina senza se e senza ma. Questi sono presupposti irrinunciabili anche per il nuovo corso del Pd.
Giovedì presenterà il suo libro a Ferrara assieme a un suo vecchio amico, ex Dc come lei, confluito nel Pd (di cui è un eminente esponente): Dario Franceschini. Che rapporto ha con lui?
Dario è un grande amico. Un’amicizia sincera, profonda, che si è rinsaldata in particolare negli ultimi dieci anni. Ricordo che, proprio in occasione del mio esordio nella politica nazionale, nel 1983, Dario mi aiutò a girare il territorio ferrarese che conoscevo poco. Poi, a Ferrara, ho coltivato amicizie che tutt’ora resistono. Ho una foto, che mi porto in tutti gli uffici nei quali mi trovo, che ritrae me e Marco Follini in occasione di un comizio di Mariano Rumor proprio a Ferrara. Era il 1980. In queste occasioni c’era sempre anche Dario, con il quale ci vedevamo anche di nascosto al casello autostradale, in mezzo alla nebbia, per curare la campagna elettorale contro il mio grande antagonista, Nino Cristofori.
Lei prima ha detto che la politica langue nel Paese. Eppure, dopo tanti governi tecnici, c’è finalmente un esecutivo guidato da una premier politica.
Sì, e questo è un fattore estremamente positivo per il Paese e per la nostra democrazia. I governi tecnici sono come medicine, una forma di antibiotico che l’Italia ha dovuto assumere. Ma se si esagera con l’antibiotico poi si finisce per indebolire l’organismo.
Qual è il suo giudizio su Giorgia Meloni?
Meloni si trova alle prese con il realismo politico di chi sta al governo dopo tanti anni di opposizione. Le va riconosciuta in politica estera una linea e una postura ineccepibili. E, di questi tempi in cui la politica estera è fondamentale, non è una cosa da poco.