Il film, tratto da una pièce di Giorgio Scianna e sceneggiato dai fratelli D’Innocenzo, racconta una scuola che non esiste. Nonostante il “tema” sia nobile, il “rema” appare scoordinato. Si salvano gli attori e la regia. Il parere dello storico del cinema e preside Eusebio Ciccotti
Luce livida. Penombra diffusa. Interno di una palestra mal tenuta. Quattro genitori sono convocati dalla signora preside. I loro tre figli hanno violentato per due volte una ragazza, compagna di classe. Sono tutti tredicenni. Davanti alla comunicazione “riservata” della preside Diana Peruggia (Giovanna Mezzogiorno), prima che “chiami la polizia”, i quattro adulti, due ex compagni di scuola, ora rispettivamente separati, Carmen Majano (Raffaella Rea), Franco Zucca (Claudio Santamaria), convocati per i loro due figli, e i coniugi Stanchi (Angela Finoccchiaro e Sergio Rubini), per il terzo stupratore, sono sorpresi. Come tanta cronaca ci ha abituati, si passa dal “non è possibile”, “la ragazza ha inventato tutto”, “non sono stati i nostri ragazzi, ma quelli del quinto anno”, allo sconvolgente “sicuramente se lei non ha gridato era d’accordo” (detto dalla mamma Carmen), con sgomento della preside.
Questo dramma psicologico da kammerspiel si dovrebbe chiudere, secondo il plot lasciato immaginare allo spettatore, con l’uscita della preside per recarsi a denunciare i tre ragazzi. Ma i quattro, agiti dalla paura per la denuncia a carico dei loro “innocenti ragazzi”, la circondano, per impedirle di lasciare la palestra. Braccata come un animale indifeso, alla donna non le rimane che la fuga verso l’alto, l’unica possibile, su una delle tre pertiche della palestra. La preside è momentaneamente salva, rannicchiata in cima, vicino al soffitto. Ma la struttura lentamente cede, la pertica con la donna precipitano sull’impiantito. Morte istantanea (sic!).
Ora prende avvio la seconda parte della storia. Si è passati da un orrendo reato commesso da dei minorenni, a una sorta di omicidio colposo ad opera di maggiorenni. I quattro, ragionando, con il cadavere sotto gli occhi, presenteranno diverse soluzioni menzognere per arrivare a quella finale che troverà tutti d’accordo.
La sceneggiatura elabora la precedente pièce teatrale, La palestra di Giorgio Scianna, una “traduzione” da testo teatrale a film, come è accaduto sin dalle origini del cinema. Tanti ipotesti teatrali han dato vita a degli autentici capolavori: pensate a Brief Encounter (1943) di David Lean tratto da una pièce di Noël Coward o a Ordet (1955) di Carl Th. Dreyer tratto da un testo di Kaj Munk. Certo, gli sceneggiatori, Damiano e Fabio D’Innocenzo non puntavano a tali vette, ma non sono andati oltre la pertica.
Questi personaggi si ritrovano in una palestra dopo trent’anni “che è rimasta uguale” (sic!). “Solo i palloni sono cambiati”. Brutta, scarsamente illuminata (allusione ad un vago espressionismo angosciante. claustrofobico), mal tenuta (premessa per giustificare l’“incidente” mortale). Non credibile. Gli istituti scolastici sono sottoposti, per legge, alla normativa sulla sicurezza con revisioni continue e certificati di agibilità. Se si voleva salvare l’idea allora bisognava, per esempio, fare un vago accenno a delle scosse di un terremoto… avvenute qualche giorno prima.
I genitori accedono alla palestra che è aperta e incustodita di pomeriggio. Non credibile. Dopo la morte della preside si chiedono l’un l’altro se li abbia visti qualcuno entrare. “Nessuno”, si rispondono. “Non c’è il guardiano”. Una palestra scolastica non costudita non esiste in Italia. Neanche in Africa.
Una spia che denota il non essersi documentati sulla vita scolastica è già nel lessico: la palestra e il cortile sono sprovvisti di “guardiano”. Nella scuola, come tutti sanno, si hanno i ‘collaboratori scolastici’, o, se vuoi usare un lemma popolare, ‘bidelli’. Diversi istituti aperti oltre l’orario del mattino sono vigilati, inoltre, da un ‘custode’ che si occupa anche degli edifici e aree esterne alle aule. Un “guardiano” vigila su un cantiere.
Nessun preside davanti alla confessione di un minore che ha subìto violenza, in questo caso siamo addirittura allo stupro di gruppo, convoca i genitori senza aver prima informato le forze dell’ordine. Il pubblico ufficiale (preside, docente, collaboratore scolastico) che fa ciò commette a sua volta un reato: inquinamento delle prove. Altro concreto indizio che il soggetto è scritto approssimativamente.
Il limite di Educazione Fisica è quello della verosimiglianza. Se voglio raccontare la vita di un ospedale debbo ricreare un ambiente e delle situazioni ospedaliere che lo spettatore riconosca se non proprio come “vere”, almeno accadibili. Così se scrivo una serie Tv poliziesca: studio il mondo delle forze dell’ordine, la tecniche delle indagini, il mondo della criminalità. Galvano della Volpe, avrebbe detto, una vicenda “verosimile”.
Ma il cinema, dal neorealismo in poi, passando per autori quali Pier Paolo Pasolini, Francesco Rosi, Matteo Garrone, Martin Scorsese, Clint Eastwood, per tacere delle serie TV, ha proiettato lo spettatore oltre il verosimile degli anni Trenta: siamo da settanta anni dentro il “realismo”.
Solo nei film sulla scuola siamo fermi allo stereotipo naturalista. Per tale “genere scolastico”, a parte alcune eccezioni, di norma non si compie uno studio sul campo: ogni autore racconta quel ‘mondo’ come se la ricorda. Ma, o scegli la vena fantastica e sei Federico Fellini o, se opti per il ‘realismo’, devi documentarti, per ottenere credibilità dallo spettatore. Damiano e Fabio D’Innocenzo, esperti sceneggiatori e validi poeti, questa volta, danno l’impressione di aver lavorato di corsa. Capita.
Sul piano attoriale, eccellente la stressata Angela Finocchiaro, a seguire Sergio Rubini, una delle sue migliori interpretazioni, a salvare una parte cucita di fretta. Purtroppo la lingua usata dal personaggio, che dichiara un mestiere ridicolo (sorveglia che i pazienti del pronto soccorso non litighino per la precedenza in base colore ricevuto) non presenta un registro coerente con il tipo. Nella conversazione con Franco Zucca (Santamaria), durante lo loro presentazione, prima usa il termine “case”, per indicare gli stabili e palazzi che Zucca compra e vende, poi, in una battuta successiva, invece dell’appropriato ‘casa’, luogo dove vive, sceglie “abito in uno stabile discreto”, lessico da notaio.
Pienamente riuscito la Carmen di Rea (apprezzata nelle serie tv in ruoli psicologicamente scavati: Sotto copertura): ella fa crescere il personaggio verso una cattiveria razionale, tale da giustificare lo stupro. Scoordinato, purtroppo, il Franco Zucca di Claudio Santamaria: il copione, prima gli chiede di fare l’aggressivo borghese arricchito, un palazzinaro, dal linguaggio scatologico (“in questa scuola tutti ci volevamo sco***…”), e qui ci siamo; poi, dopo la morte della preside, si trasforma in un colpevole personaggio alla Agatha Christie, esperto di indagini, in grado di spiegare ai tre come non sia facile trovare una soluzione al loro ‘omicidio indotto’ (virata psicologica poco coerente).
Valeria Mezzogiorno è personaggio sbiadito, troppo dipendente da luoghi comuni. Innanzitutto, erano da evitare i prevedibili occhiali per dire ‘ecco la preside’: o nessun personaggio con gli occhiali, o almeno due su cinque. Poi, perché ella dovrebbe presentarsi vestita informalmente con scarpe di gomma (per poi arrampicarsi?), insomma, da tipo ‘progressista’, ‘femminista’, ‘alternativo’? Le viene affidato un copione rinsecchito, da suorina dispiaciuta che ha ricevuto una terribile confessione. Tranne un accademico e prevedibile sfogo di reazione finale contro la malvagità e la volgarità di Zucca, che le ha offerto del denaro per tacere, una recitazione piuttosto grigia.
Nella realtà, davanti ai genitori che scusano i figli, avrebbe dovuto “arrabbiarsi” veramente; poi, argomentare di culpa in educando; delle responsabilità penali dei ragazzi; dei danni permanenti ricevuti dalla ragazza; della eventuale disattenzione del personale nella sorveglianza di ragazzi tredicenni: come parlerebbe una vera preside.
Eppoi, quale preside dà un appuntamento “segreto” in palestra: è contro ogni buon senso. Per di più senza portarsi un vicepreside o un docente come testimone Eppure, vedrete, molti spettatori esclameranno: “Questa è la scuola! Com’è ridotta!”.
Come direbbero gli esperti di linguistica pragmatica Educazione Fisica propone un buon tema (la cieca difesa dei genitori verso figli mal educati e rei di un terribile reato) ma non struttura logicamente il rema (l’argomentazione, il cotesto).
Inoltre, il film è fuori fuoco sin dal titolo (meglio lasciare La palestra; oppure proporre altri titoli, ‘La pertica’, ‘La fuga’, ‘Innocenti’, scegliete voi), poiché da anni la materia insegnata a scuola si chiama “Scienze motorie”.
Il film recupera l’attenzione dello spettatore grazie a una regia e a un montaggio – che costretti a lavorare in un interno -, se non appaiono rivoluzionari, adottano alcune soluzioni care a Orson Welles: con plongée obliqui e contre-plongée, segno d’una innegabile sensibilità di Stefano Cipani. Ma, per favore, non scomodiamo rimandi a capolavori di drammi in una stanza: da Louis Delluc, passando per Sidney Lumet e Luis Buñuel sino a Harold Pinter. Non lo gradirebbe neanche l’onesto Cipani.
RECITAZIONE 7
SCENEGGIATURA 3
LINGUA ITALIANA: 4
MUSICA 6
FOTOGRAFIA 6
REGIA 7
SCENOGRAFIA 4
MEDIA: 5, 2