Accordo storico tra Ankara e Abu Dhabi: dalle nuove intese del commercio turco-emiratino passano le distensioni regionali nel Mediterraneo. Per Erdogan è una boccata di ossigeno in un momento difficile, mentre bin Zayed conferma la volontà strategica di essere hub di affari politici ed economici intenzionali
Gli Emirati Arabi Uniti e la Turchia hanno firmato un patto che potrebbe più che raddoppiare il volume degli scambi bilaterali, portandolo a 40-45 miliardi di dollari entro i prossimi cinque anni.
L’accordo globale, di cui una bozza era stata annunciata l’anno scorso, è stato finalizzato venerdì 3 marzo ad Abu Dhabi durante una visita del ministro del Commercio turco, Mehmet Mus. L’intesa — tecnicamente nota come Comprehensive Economic Partnership Agreement (Cepa) — prevede la riduzione dell’82% delle tariffe doganali tra i due Paesi, ha dichiarato in un’intervista Thani Al Zeyoudi, ministro di Stato degli Emirati Arabi Uniti per il commercio estero.
Sebbene si tratti di qualcosa dal carattere economico-commerciale, il valore dell’accordo tra Abu Dhabi e Ankara è molto più ampio. Tutto si basa su un primo agreement per la cooperazione nel settore della difesa e su una serie di accordi economici firmati nel 2022 dopo la visita del presidente turco Recep Tayyip Erdogan negli Emirati. Viaggio che era stato già uno sviluppo significativo nel risanamento delle relazioni tra due stati che avevano manifestato le loro rivalità in passato.
Le divisioni si erano attestate lungo la faglia intra-sunnita che separa le visioni islamiste – sponsorizzate dalla Turchia di Erdogan – e quelle più connesse con lo status quo, protette dal Golfo. Le tensioni sono sfociate anche in scontro armato per procura sul territorio libico, quando gli emiratini sostenevano i ribelli della Cirenaica che cercavano l’assalto al governo onusiano di Tripoli, difeso dai turchi. Ma frizioni hanno interessato per anni la gran parte dei dossier del Mediterraneo allargato.
Quanto accade è il compimento definitivo di una dinamica di distensione ampia, che interessa tutta la regione, e che ha visto la normalizzazione tra alcuni Paesi arabi (su tutti proprio gli Emirati) e Israele, l’appeasement tra rivali sunniti, una nuova stagione delle relazioni tra Ankara e Gerusalemme e tra Turchia ed Egitto, e a cascata nuove dinamiche più fluide su tutte le istanze regionali. L’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden (interessato a spegnere strategicamente i fronti in fiamme), la pandemia, la guerra in Ucraina sono le grandi ragioni – politica, emergenziale, securitaria – che hanno indotto questo moto.
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Il partenariato economico globale segnato da questo accordo è fondamentale per la sostenibilità delle relazioni tra Emirati e Turchia, perché aumenterà in modo significativo il volume degli scambi bilaterali in un breve periodo e aprirà nuove opportunità per entrambe le parti di approfondire ulteriormente i loro legami su solide basi di interessi reciproci”, spiega Ali Bakir, esperto di Turchia e Golfo e Senior fellow della “Scowcroft Middle East Security Initiative” dell’Atlantic Council.
”In altre parole — continua Bakir con Formiche.net — si tratta di una situazione vantaggiosa per tutti. Si tratta di una parte di un processo che sembra abbracciare diversi aspetti strategici della crescente relazione a livello di difesa, economico e politico. In questo senso, è possibile che sia un cambio di rotta nelle relazioni della Turchia con i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo”.
Una condizione di cui beneficia l’intera regione, e dunque anche l’Italia. Roma, al centro del Mediterraneo allargato, ha ottimi rapporti sia con Ankara che con Abu Dhabi, e il nuovo accordo commerciale turco-emiratino – che si concentra su settori quali l’agroalimentare, l’energia pulita, la logistica e l’edilizia – diventa anche uno spazio di azione per gli interessi italiani.
Il viaggio di Mus nella capitale degli Emirati, negli stessi giorni in cui peraltro è in visita la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, segna la prima uscita all’estero di un alto funzionario turco dopo i devastanti terremoti che hanno colpito parti della Turchia e della Siria a febbraio. Gli aiuti o altri tipi di assistenza da parte emiratina sono stati già individuati come quelle forme di contatto che raccontavano la distensione in corso.
L’economia turca è cresciuta del 5,6% l’anno scorso, chiudendo il 2022 con una crescita più rapida del previsto, grazie all’aumento delle spese del governo in vista delle elezioni. Ma i terremoti comporteranno costi che la Banca Mondiale stima in oltre 34 miliardi di dollari di danni.
Oltre a un accordo di swap valutario di 4,9 miliardi di dollari stipulato con la Turchia l’anno scorso, gli Emirati Arabi Uniti si sono impegnati adesso a investire miliardi di dollari in Turchia attraverso entità affiliate al governo. Il commercio bilaterale tra i due Paesi ha raggiunto quasi 19 miliardi di dollari nel 2022. Per Erdogan è una boccata di ossigeno in vista di un voto che sarà un referendum sulla sua eredità politica.
Gli Emirati Arabi Uniti, terzo produttore dell’Opec, stanno spingendo sempre di più per sviluppare la propria posizione di hub globale per gli affari e la finanza. Hanno già avviato accordi di partenariato economico globale con diverse economie in rapida crescita in tutto il mondo, tra cui India, Indonesia e Israele. Soprattutto, il Paese di Mohammed bin Zayed intende abbinare queste attività economico-commerciali con una postura internazionale più aperta, abbandonando le posizioni più di qualche anno fa.
Dal punto di vista strategico, l’accordo tra Emirati e Turchia fa parte dunque dei continui sforzi di Abu Dhabi per perseguire e promuovere il libero scambio, al fine di riaffermarsi nella catena di approvvigionamento globale, rafforzare gli Accordi di Abramo — erodendo il peso dell’Islam politico in Turchia, Iran e nei Paesi arabi, secondo un’intesa di comune interesse dei firmatari — e consolidare la propria posizione nell’era della competizione tra grandi potenze. Gli Emirati Arabi cercano uno spazio di leadership nel nuovo Medio Oriente e vogliono emergere anche perché osservano la formazione di un più ampio blocco di partner che Washington ha costruito dopo la pandemia e in mezzo alla guerra russa contro l’Ucraina.