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Lo scontro su Tim e i nuovi conflitti a livello internazionale secondo Polillo

Si è cominciato a prendere atto della necessità di difendere e proteggere un primato tecnologico, anche a costo di violare le vecchie regole del Wto. Peccato solo che, in questa nuova battaglia, l’Italia risulti completamente disarmata. L’opinione di Gianfranco Polillo

Com’era forse inevitabile l’invasione russa dell’Ucraina sta innescando un effetto domino. Alle sanzioni operanti da tempo, si contrappongono ora i possibili tentativi di utilizzare i migranti, come forza d’urto nei confronti dell’intera Europa. Mentre sul fronte delle tecnologie più evolute è scontro aperto non solo nei confronti della Russia di Vladimir Putin, ma della stessa Cina di Xi Jinping, colpevole di assecondarne, seppure in modo contorto e poco trasparente, le relative mira.

L’Europa, su pressione americana, si sta svegliando. I Paesi Bassi, ma anche il Giappone, hanno deciso l’embargo delle forniture, nei confronti di Pechino, delle stampanti per la produzione dei microchip più avanzati. In questo modo Taiwan non solo continuerà a difendere il suo primato, ma, investendo negli stessi Stati Uniti, contribuirà al successo del Chips Act: il programma lanciato dal presidente statunitense Joe Biden, con una dotazione di 280 miliardi di dollari, per riportarne in patria le fabs (aziende che sfornano prodotti elettronici) in precedenza disperse sull’onda della globalizzazione.

In Europa, invece, è caccia al 5G di produzione cinese. Soprattutto in Germania si punta a demolire le infrastrutture comprate da Huawei e Zte, per sostituirle con prodotti occidentali. Dure le razioni di Pechino. “L’Occidente guidato dagli Stati Uniti”, ha detto il ministro degli Esteri cinese Qin Gang, nella sua prima conferenza stampa, “sta attuando contro di noi un contenimento, un accerchiamento e una soppressione a tutto campo, ponendo sfide di una gravità senza precedenti allo sviluppo del nostro Paese”. Poi, attraverso la stampa fiancheggiatrice, la risposta ancora più dura. Invece delle tecnologie 5G, la Cina si specializzerà nel 6G, che è la nuova frontiera tecnologica del grande mondo della comunicazione.

A tutto ciò si aggiungono le limitazioni poste alla diffusione di TikTok: circa 2 miliardi di follower, un predominio quasi assoluto nel mondo giovanile, il sospetto che si tratti di un “malware”, come denunciato inizialmente dagli hacktivisti di Anonymous, nelle mani del governo cinese, impegnato “in una colossale operazione di sorveglianza di massa”. Sta di fatto che diversi governi occidentali, come quello britannico e quello statunitense, ne hanno proibito l’uso da parte dei dipendenti pubblici. Mentre in altri casi, come l’India, l’app è stata messa al bando, nel timore, appunto, di un suo utilizzo da parte del governo cinese, con evidenti finalità di intelligence.

Ultimo elemento di analisi, infine, quello relativo al possibile sostegno militare che la Cina fornirebbe alla Russia nella guerra in Ucraina. Se i sospetti circa la fornitura di armi si dimostrassero fondati, la situazione diverrebbe esplosiva. E lo scontro, già in atto, assumerebbe forme ben più preoccupanti. Ma anche a prescindere da quest’ultima eventualità, i fatti precedentemente richiamati stanno a dimostrare la forte accelerazione intervenuta nella crisi. L’invasione dell’Ucraina ha determinato un conflitto ben più esteso. Una guerra ibrida, come si dice, dove le armi, per fortuna tacciono, ma i focolai di tensione sembrano aumentare con il trascorrere del tempo.

Tra gli elementi di tensione il possesso e il controllo delle tecnologie del domani hanno una loro crescente centralità. Sia che si tatti della computer science, sia della più futuribile intelligenza artificiale. L’importanza di queste tecnologie è enormemente cresciuta in questo anno di guerra ai confini dell’Europa. Se la “missione militare speciale” di Putin non é stata in grado di realizzare i propri obiettivi, nei tempi previsti, lo si deve senza dubbio all’eroismo ed all’abnegazione del popolo ucraino. Che tuttavia poco avrebbe potuto, se quei combattenti non fossero stati assistiti dalla tecnologia di guerra occidentale, che ha consentito loro di resistere, nonostante la sproporzione esistente negli armamenti convenzionali e nel numero dei combattenti.

La guerra, in altre parole, ha reso evidente quanto sia importante il controllo di quelle tecnologie e spinto, come già si è detto, sia gli Stati Uniti sia altri Paesi europei ad agire di conseguenza. Facendo loro superare rapidamente la vecchia concezione mercantilista, ch’era stata alla base dello sviluppo della globalizzazione. Quell’atteggiamento che vedeva nella massimizzazione dei profitti l’unico interesse degno di nota. Quando oggi si è cominciato a prendere atto della necessità di difendere e proteggere un primato tecnologico, anche a costo di violare le vecchie regole dell’Organizzazione mondiale del commercio. Peccato solo che, in questa nuova battaglia, l’Italia risulti completamente disarmata.

Negli anni passati la disattenzione delle forze di governo, per ogni genere di politica industriale, era stata massima. Ancora maggiore per là computer scienze ed i suoi effetti indotti. Secondo l’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società (Desi), l’Italia, ancora nel 2022, occupava la posizione 18 tra i 27 Paesi dell’Unione europea. Peggio del Bel Paese solo il gruppo degli ex Paesi comunisti con l’aggiunta di Cipro e della Grecia. Nei quattro settori in cui le indagini della Commissione europea suddividono la materia (capitale umano, connettività, integrazione tecnologie digitali, servizi pubblici digitali) la posizione italiana presenta alti e bassi, ma nel complesso i risultati sono deludenti.

La somma del punteggio conseguito in ogni settore è, infatti, inferiore al valore medio europeo, nonostante i progressi compiuti negli ultimi cinque anni. Che non hanno portato, tuttavia, a un rimescolamento della graduatoria. Per cui, sempre lo scorso anno, Germania, Francia e Spagna avevano un posizionamento maggiore. Mentre per l’Italia l’handicap maggiore si riscontrava nelle politiche a favore del capitale umano (quasi 10 punti di differenza dalla media Ue) e nel comparto servizi pubblici digitali (più o meno la stessa differenza). Mentre nel campo della connettività, restavano le anomalie di un sistema, come quello italiano, che non aveva eguali nel panorama occidentale. Con un numero eccessivo di challanger (sfidanti) nei confronti di Tim, che non aveva certo le caratteristiche dell’incumbent. Vale a dire: ex monopolista con una posizione dominante, come avveniva in Francia con Orange, in Germania con Deutsche Telekom e in Spagna con Telefónica.

Un’anomalia, quella italiana, che è stata figlia di una storia antica, con il sistema delle sue telecomunicazioni, di volta in volta, depredato da avventurieri di vario tipo: a partire dai “capitani coraggiosi”, per finire con la ricerca di un papa straniero: nell’ordine spagnolo e quindi francese. E un governo assente, se non complice di quel grande disastro. Palazzo Chigi? L’unica merchant bank che non parla inglese, secondo la definizione di Guido Rossi, che di Telecom italia era stato più volte presidente.

Di fronte alle nuove sfide, imposte dai cambiamenti della situazione internazionale, quel sistema regge sempre meno. Al punto che lo stesso mercato, con la sua logica specifica, aveva inviato segnali inequivocabili. Come era risultato evidente, fin dallo scorso anno, nel nuovo piano industriale lanciato da Tim. Con la sua articolazione su 4 linee strategiche. Di cui una in particolare, la NetCo, assumeva un valore paradigmatico, In quell’entity, come era stata definita, sarebbero confluiti i cavi sottomarini di Sparkle, una parte del backbone (la dorsale di linee che consentono interconnessioni a lunga distanza a reti locali), la rete primaria e secondaria di Fibercop. Per costituire, in definitiva, il nucleo della possibile futura rete pubblica di telecomunicazioni.

Nel successivo Capital market day veniva, infatti, precisato che “la combinazione della rete di Tim con quella di Open Fiber rimane(va) l’opzione prioritaria/preferita per sbloccare considerevoli sinergie e consentire la piena valorizzazione della rete infrastrutturale. Ma solo se eseguito a condizioni vantaggiose sia per i detentori di azioni che per i detentori di debito”. Opzione, a sua volta, destinata a sottolineare una delle tante contraddizioni della politica industriale italiana. Cassa depositi e prestiti, infatti, è azionista tanto di Tim (9,81 per cento del capitale) che di Open Fiber (60 per cento, mentre il 40 per cento è in mano al fondo australiano Macquarie). Si trattava pertanto di fondere le due partecipazioni in un unico progetto, con l’obiettivo di arrivare finalmente a quella rete pubblica per le telecomunicazioni, che per anni aveva rappresentato, per l’Italia, una sorta di araba fenice.

Ci sono voluti mesi, prima che il progetto prendesse corpo. E del ritardo sono stati altri ad approfittarne.. Lo scorso 1 febbraio, giocando d’anticipo, il fondo americano Kkr – un fatturato di 20 miliardi di dollari, un forte legame politico con l’amministrazione, specie con la componente repubblicana – aveva presentato un’offerta non vincolante per l’acquisto di NetCo per un importo pari a 20 miliardi di euro. Mossa che aveva spinto Cassa depositi e prestiti ad accelerare i tempi, con una controproposta più o meno equivalente, anche se con una maggiore liquidità a favore di Tim. Operazione destinata a favorire l’intento del governo guidato da Giorgia Meloni, la quale si era già pronunciata a favore di una rete nazionale a controllo pubblico.

A complicare ancor più la situazione era stata la successiva reazione di Vivendi, che di Tim è il principale azionista (19,88% del capitale). Il ceo Arnaud de Puyfontaine aveva fatto sapere di considerare entrambe le proposte (sia di Kkr, sia di Cdp) del tutto inadeguate. A suo dire il valore di NetCo sarebbe stato pari ad almeno 30 miliardi di euro, contro i 18-20 proposti. Si vedrà nelle prossime settimane quale sarà il punto di caduta, tenendo anche conto delle perplessità europee. Nel frattempo vale però la pena riflettere. Il governo Meloni si è dato, come orizzonte programmatico, l’intera legislatura. Un periodo lungo, se paragonato al succedersi dei diversi governi nella storia italiana. Ma estremante breve rispetto ai disastri del passato e l’intervenuta accelerazione della situazione internazionale. Bisognerebbe quindi fare presto e bene. Sempre che l’opposizione non ci metta la coda.

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