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Meloni-Macron, la strada è giusta, anche grazie al Piano Africa. Parla Castiglioni

Non basta un incontro bilaterale, per quanto lungo o cordiale, per risolvere alcune divergenze politiche di fondo. È possibile però provare a cambiare passo costruendo una convergenza settoriale: ad esempio sulla politica estera. Conversazione con l’analista dello Iai, all’indomani del Consiglio europeo

Roma e Parigi? Costruendo una convergenza settoriale, ad esempio sulla politica estera, è possibile cambiare passo. Lo pensa l’analista Federico Castiglioni dell’Istituto Affari Internazionali, secondo cui il bilaterale Meloni-Macron rappresenta un segnale positivo, che andrà corroborato da iniziative mirate e comuni, come quelle tarate su Libia e Tunisia.

Con Parigi la situazione è stata davvero ricomposta dopo le frizioni degli scorsi mesi?

Il fatto che ci sia stato un lungo bilaterale tra Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron è un segnale molto positivo. Ricordiamo che il segretario di stato per gli Affari Europei francese Boone dopo l’insediamento dell’attuale coalizione di governo aveva promesso che avrebbe “vigilato” sull’Italia. Successivamente, in occasione del debutto internazionale di Giorgia Meloni al G20 di Bali lo scorso novembre, il primo ministro italiano aveva commentato l’assenza di un incontro bilaterale con il presidente francese con sarcasmo (“non ho bisogno di venire a Bali per incontrare Macron”).

Infine, lo scorso febbraio si sono registrati momenti di tensione per la scelta dell’Eliseo di incontrare in formato trilaterale, insieme al Cancelliere tedesco Scholz, il Presidente Zelensky a Parigi, poco prima del Consiglio Europeo dedicato all’Ucraina. Giorgia Meloni chiamò pubblicamente quest’incontro inopportuno. Ad oggi è presto per dire se questa sia storia passata o meno; certamente non basta un incontro bilaterale, per quanto lungo o cordiale, per risolvere alcune divergenze politiche di fondo. È possibile però provare a cambiare passo costruendo una convergenza settoriale: ad esempio sulla politica estera – Tunisia e Libia in primis – ma anche su quella energetica, sfruttando le riserve che entrambi i governi hanno nei confronti di alcuni passaggi della transizione verde europea.

Ciò si tradurrà in una partnership italo-francese anche sul dossier migranti?

Il tema dei migranti, come ricorderà, è stato forse il più caldo delle difficili relazioni tra il governo francese e neo-insediato governo italiano. A novembre scorso, la nave umanitaria Ocean Viking approdava al porto di Tolone per risolvere una situazione di stallo che si era creata con le autorità italiane. Il governo aveva provato a vendere quest’atto di solidarietà come un’inversione di tendenza rispetto alle regole seguite fino a quel momento sul porto sicuro di primo arrivo e questa narrazione aveva indispettito Parigi.

Il motivo è che in Francia, così come in Italia, questo è un tema delicato che polarizza la società. Il governo francese di Elisabeth Borne proprio allora stava proponendo una legge sui rimpatri forzati molto controversa che mirava ad aumentare la popolarità dell’Esecutivo a destra. Anche Emmanuel Macron sta seguendo una linea molto pragmatica sul tema migratorio, come dimostrato dall’accordo raggiunto con il Regno Unito lo scorso 10 marzo per bloccare gli attraversamenti illegali della Manica. La sfida politica a questo punto per l’Eliseo è marcare la differenza tra un esecutivo moderato come il suo e quello italiano, considerato ancora vicino al “rassemblement national”. Il distinguo è quindi importante per dare un messaggio all’interno del Paese più che a livello internazionale.

Le pressioni italiane sul Fmi affinché conceda il prestito alla Tunisia, impedendone così il default, saranno efficaci anche per scongiurare una nuova ondata di arrivi?

Sicuramente. In realtà la comunità tunisina in Italia è abbastanza piccola e, seguendo lo storico dei flussi migratori, è proprio la Francia a rischiare di più in caso di collasso di Tunisi. Ma in realtà il problema con la Tunisia non è tanto per il flusso che può venire dal Paese (stiamo parlando di uno Stato abbastanza piccolo con circa 12 milioni di abitanti) ma i flussi che possono iniziare ad attraversarlo, come già avvenuto in Libia dopo la guerra civile. E proprio per evitare che si crei in Tunisia un business come quello libico l’Italia sta finanziando da anni Tunisi, arrivando anche a regalare motovedette da usare per il monitoraggio costiero. E’ ovvio che Italia e Francia sono egualmente interessate in una stabilità economica e sociale del Paese, anche se questo porta a sostenere governi democraticamente opachi.

Come si lega il Piano Mattei per l’Africa all’esigenza, anche industriale ed energetica, di stabilizzare istituzionalmente la Libia?

Il così detto “piano Mattei” deve ancora essere articolato in modo chiaro, visto che con questo termine si tenta al momento di dare un cappello a diverse iniziative italiane in Africa apparentemente poco connesse tra loro. Per questo motivo, più che di un piano parlerei di una direttrice di politica estera (che comunque non è poco). Nel caso specifico della Libia, l’azione italiana si propone di attuare una serie di investimenti che possono facilitare un riavvicinamento del governo di Tripoli e di Benghazi, come l’ammodernamento e l’estensione dell’“autostrada della pace”, costruita dagli italiani negli anni ’30 e che ancora oggi serve come collegamento costiero.

Sempre in un’ottica di unione del paese e di stabilizzazione, l’approccio pragmatico del governo potrebbe essere quello di trovare, anche grazie ad Eni, un accordo tra Cirenaica e Tripolitania sulla supply chain di gas e petrolio. Gli accordi con l’Algeria puntano nella stessa direzione, ossia promettere investimenti diretti e aiuti (anche nel settore della sicurezza) in cambio di materie prime. Lo scopo, riprendendo le parole del Premier, è di rendere l’Italia un’ “hub energetico” per l’Europa. La stessa Europa, tuttavia, sta provando ad abbandonare i fossili e questo è un fattore che certamente si considererà prima di impostare su queste premesse una strategia di investimenti pluriennale.

Dal Consiglio Europeo emerge una centralità italiana nel dibattito Ue?

Dipende dai temi. L’Italia aveva già ottenuto sul tema migratorio un certo allineamento durante il vertice dello scorso febbraio, quando le conclusioni del Consiglio avevano insistito sul controllo dei confini europei e sottolineato l’importanza del rapporto con gli Stati di partenza e di transito. La strategia italiana era di “europeizzare” il dibattito non solo discutendo le regole su accoglienza ed asilo, ma anche puntando su un’azione diplomatica comune. Non che questa sia un’idea davvero originale: il vertice di Malta del 2015 aveva impostato il dialogo euro-africano proprio su questi binari ma ciò non è bastato a bloccare gli arrivi dalla sponda sud. Ad oggi, comunque, non mi sembra ci sia nulla di nuovo.

D’altro canto, abbiamo altri dossier di natura economica o in senso proprio (Mes e Unione bancaria) o in senso lato (transizione energetica) sui quali l’Italia deve ancora lavorare per farli andare nella direzione attesa, cercando una quadra secondo uno schema di “geometrie variabili” in seno al Consiglio. Per ora Giorgia Meloni sta guardando ad est verso la Polonia di Morawiecki e alla Grecia di Mitsotakis, ma una collaborazione settoriale con l’Eliseo potrebbe risultare ben più promettente, così come sarà interessante seguire i temi discussi durante la visita del Primo ministro spagnolo Sanchèz a Roma i primi di aprile.

@FDepalo


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