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Perché può essere la Turchia la chiave per il dossier migranti

Flussi dal Mediterraneo centrale, ruolo euroatlantico di Roma e stimolo alla difesa delle frontiere Ue: Giorgia Meloni sceglie il cappello geopolitico per presentare i lavori del prossimo Consiglio europeo

Replicare il modello dell’accordo siglato tra Ue e Turchia nel 2016 anche per le rotte del Mediterraneo centrale, al fine di gestire un fenomeno che sta diventando strutturale. Questo l’impegno che il presidente del Consiglio ha preso in Parlamento, prima del Consiglio europeo del prossimo 23 marzo, nella consapevolezza che l’obiettivo del governo è quello di allargare le maglie della condivisione di responsabilità e di iniziative politiche perché “le frontiere marittime dell’Italia sono le frontiere europee e l’Ue è chiamata a difenderle”.

Immigrazione

In Senato Giorgia Meloni ha messo l’accento sul comune denominatore geopolitico di emergenze come l’immigrazione e la guerra in Ucraina: il fil rouge che accompagna il ragionamento del governo è che prima di ogni diritto a migrare c’è il diritto di non essere costretti a migrare, per questa ragione e al fine di fermare i movimenti secondari, cosa di cui l’Ue ha accusato in passato l’Italia, vanno fermati quelli primari. Ma come? “Gli stati bandiera che finanziano le Ong devono assumersi più responsabilità”, osserva il premier, certificando un cambio di paradigma rispetto a ciò che era stato detto e deciso fino ad oggi. “Non accettiamo che la selezione all’ingresso in Ue sia decisa da mafie e scafisti”.

Per cui dal momento che gli altri Paesi hanno già i decreti flussi, mentre per l’Italia la materia è governata dai flussi irregolari, Meloni ribadisce che mettersi dalla parte degli scafisti è irragionevole.

Facile far confluire questo ragionamento sulla quasi crisi in Tunisia, attesa da mesi decisivi: se non dovesse ricevere i prestiti concordati (ma non ottenuti) con il Fondo Monetario Internazionale il default potrebbe concretizzarsi in un semestre, ha precisato Meloni, con la deflagrazione di una serie di emergenze (umanitarie, geopolitiche, sociali) su cui players esterni potrebbero essere tentati di giocare un ruolo. Da tempo è noto quello della brigata Wagner in Mali, da dove i francesi si sono disimpegnati, e nella repubblica centrafricana: non intervenire politicamente nel brevissimo periodo avrebbe gravi conseguenze.

Altra emergenza migranti, quella della rotta balcanica. I numeri si impennano mese dopo mese, come dimostrano i 2400 migranti entrati in Friuli Venezia Giulia dall’inizio dell’anno. Sul punto va ricordato che pochi giorni fa il ministro degli Esteri Antonio Tajani, in visita in alcuni Paesi balcanici ha “benedetto”, le pattuglie miste italiane e bosniache. Significa che il governo in questo modo ha individuato un modello virtuoso, da seguire e implementare, al fine di dare una risposta organica ad un fenomeno che necessita di risposte organiche e non sloganistiche.

Ucraina

È in questo contesto che si inserisce la conferma del ruolo italiano in Ucraina. Meloni non solo ribadisce che finché sarà necessario l’Italia continuerà a sostenere Kiev al di là delle conseguenze, anche di consenso, che potranno arrivare. Ma sottolinea che l’aiuto è necessario sia a garantire la legittima difesa degli invasi, che quella di chi al di qua dell’Europa può così tenere la guerra lontana dalle proprie coste. “Rispettare gli impegni esistenti è vitale per la nostra credibilità internazionale”.

Non solo armi o munizioni, ma il governo punta molto sugli accordi del Mar Nero sul grano, che assicura la fornitura ad una serie di Paesi già gravati da crisi sistemiche (come il Libano) e sulla delicata partita della ricostruzione ucraina, su cui l’Italia ha pronto il proprio background (il 26 aprile si terrà la conferenza di Roma sull’Ucraina).


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